Ricorso integralmente respinto, con tanto di riferimento a una scarsa collaborazione da parte di alcuni Stati membri che hanno di fatto minato la buona riuscita del programma. La sentenza emessa lo scorso 6 settembre dalla Corte di giustizia dell’Unione Europea non ha accolto le tesi di Slovacchia e Ungheria e ha mantenuto in vita il meccanismo temporaneo di ricollocazione obbligatoria di 120.000 persone in stato di evidente bisogno di protezione internazionale, predisposto dalla Commissione europea e poi adottato dal Consiglio nel settembre 2015 con l’obiettivo di alleviare le pressioni migratorie su Grecia e l’Italia. Originariamente, lo schema comprendeva anche l’Ungheria, ma Budapest chiese subito di essere esclusa dal programma: il meccanismo, di natura emergenziale, avrebbe pertanto dovuto coprire soltanto Roma e Atene. Allora, dopo mesi in cui i migranti avevano premuto con notevole forza sull’Europa lungo le rotte del Mediterraneo orientale e centrale e sui Balcani, l’esigenza di un intervento rapido per affrontare la crisi appariva particolarmente sentita. Tuttavia, sin dall’inizio, i Paesi dell’Unione non hanno remato tutti nella stessa direzione e in sede di Consiglio la Repubblica Ceca, la Slovacchia, la Romania e l’Ungheria si pronunciarono contro il piano di ricollocazione, che fu comunque approvato. Positivo fu invece il voto della Polonia, che però di lì a poco – con la vittoria elettorale nel mese di ottobre della destra di Diritto e giustizia – avrebbe radicalmente modificato i suoi orientamenti.

A due anni dal lancio del programma, la strada da percorrere pare ancora molto lunga, ma in una nota la Commissione ha voluto comunque evidenziare i trend positivi registrati negli ultimi mesi sul fronte delle ricollocazioni. Da febbraio, infatti, ha sottolineato Bruxelles, circa 2300 al mese sono state le persone trasferite, per un totale complessivo dall’inizio del piano di 27.695 migranti ricollocati, 19.244 dei quali provenienti dalla Grecia e 8451 dall’Italia. Alcuni Stati come Malta e la Lettonia hanno già pienamente rispettato gli impegni presi sui migranti provenienti da Atene, mentre ancora La Valletta ed Helsinki sono prossime al raggiungimento degli obiettivi fissati per le ricollocazioni dall’Italia. Polonia e Ungheria non hanno invece ancora accolto un singolo migrante, mentre la Repubblica Ceca non ha promesso posti per la ricollocazione per un periodo superiore a un anno. Per questo motivo, il 26 luglio, la Commissione ha fatto avanzare la procedura d’infrazione nei confronti di Varsavia, Budapest e Praga, inviando loro un parere motivato.

In merito alla pronuncia della Corte di giustizia, i giudici di Lussemburgo hanno rigettato gli argomenti di Slovacchia e Ungheria sia per quanto concerne le questioni procedurali e la base giuridica di adozione della decisione, che per ciò che riguarda la presunta inadeguatezza del meccanismo di ricollocazione nell’affrontare la crisi migratoria.

In primis, la Corte ha respinto la tesi secondo cui la decisione dovesse seguire la procedura legislativa per il fatto che l’articolo 78 par. 3 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (TFUE) – utilizzato come base giuridica dell’atto – prevede la consultazione del Parlamento. Ai sensi di tale articolo «Qualora uno o più Stati membri debbano affrontare una situazione di emergenza caratterizzata da un afflusso improvviso di cittadini di paesi terzi, il Consiglio, su proposta della Commissione, può adottare misure temporanee a beneficio dello Stato membro o degli Stati membri interessati»: manca evidentemente qualsiasi riferimento esplicito alla procedura legislativa, ragion per cui la decisione è stata regolarmente adottata nel quadro di una procedura non legislativa. Tale aspetto risulta di particolare rilevanza perché a esso si ricollegano ulteriori conseguenze: non trattandosi di atto legislativo, la sua adozione non era assoggettata ai requisiti riguardanti la partecipazione dei parlamenti nazionali e alla natura pubblica delle deliberazioni e dei voti in seno al Consiglio. Ancora, essendo l’ambito temporale di applicazione della decisione circostanziato in maniera precisa – dal 25 settembre 2015 al 26 settembre 2017 – non è discutibile il suo carattere temporaneo. Quanto invece ai riferimenti alle conclusioni del Consiglio Europeo del 25 e 26 giugno 2015, secondo cui le decisioni in merito alla distribuzione dei migranti avrebbero dovuto essere assunte per consenso, esse non possono considerarsi ostative all’adozione della decisione impugnata, perché riferite a un altro progetto di ricollocazione. Il Parlamento poi, nonostante il piano adottato si sia discostato in maniera sostanziale rispetto alle originarie previsioni della Commissione, era stato debitamente informato delle modifiche intervenute, mentre il Consiglio non era tenuto a pronunciarsi all’unanimità, anche perché la proposta di modifica aveva ricevuto il via libera dalla Commissione stessa per tramite di due commissari autorizzati a esprimere la posizione dell’istituzione.

Sulla presunta inadeguatezza del meccanismo di ricollocazione, i giudici hanno ritenuto che esso non possa considerarsi manifestamente inadatto al raggiungimento dell’obiettivo prefissato, ossia quello di sostenere in un momento difficile l’Italia e la Grecia. A ogni modo – ha evidenziato la Corte – la validità di una decisione non può essere rimessa in discussione sulla base di analisi retrospettive sulla sua efficacia, a meno che le valutazioni effettuate al momento della sua adozione non appaiano chiaramente errate: condizione che, in questo caso, non pare sussistere, perché l’esiguo numero di ricollocazioni finora effettuate può ricondursi a una serie di fattori non prevedibili in precedenza, non da ultimo – hanno rilevato i giudici – la mancanza di cooperazione da parte di alcuni Stati membri.Immagine 0

Le reazioni dei Paesi interessati non si sono fatte attendere: il primo ministro slovacco Robert Fico ha dichiarato di riconoscere il verdetto, ribadendo però che la posizione di Bratislava sulla questione non cambia. La premier della Polonia Beata Szydło, che si era schierata nel procedimento accanto a Slovacchia e Ungheria, ha confermato che Varsavia non intende aprirsi all’accoglienza, mentre il presidente ceco Miloš Zeman ha dichiarato che il Paese non deve cedere alle minacce. Quanto all’Ungheria, Viktor Orbán – la cui richiesta di risorse aggiuntive per la difesa dei confini è stata rispedita al mittente dal presidente della Commissione Jean-Claude Juncker – ha sottolineato come la battaglia si sposti ora dal piano legale a quello politico, sostenendo che Bruxelles sta cercando di trasformare l’Europa in un continente con popolazione e cultura miste.

Intanto, il commissario per le Migrazioni e gli Affari interni Dimitris Avramopoulos ha evidenziato come le porte siano aperte a un cambiamento dell’approccio sulla questione delle ricollocazioni, ma anche che se l’atteggiamento non dovesse cambiare, Bruxelles è pronta all’ultimo passaggio della procedura d’infrazione, deferendo alla Corte di giustizia i Paesi riottosi. Il programma è dunque salvo, ma per ora la retorica delle cancellerie a esso ostili non cambia. Senza dimenticare che – come ha ben osservato il Washington Post – c’è anche da considerare la posizione dei migranti. Nei cui sogni c’è innanzitutto la Germania, e non certo Budapest o Bratislava.

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