Dopo dodici anni consecutivi al potere, Benjamin Netanyahu ha dovuto dire addio al ruolo di primo ministro dello Stato ebraico. Il 13 giugno la coalizione guidata da Yair Lapid e Naftali Bennett è riuscita a superare il voto di fiducia al Parlamento (la Knesset) con 60 voti a favore, 59 contrari e un astenuto, mettendo così fine all’era Netanyahu.
Restano però forti dubbi sulla capacità del nuovo esecutivo di arrivare alla fine della legislatura,
considerando la varietà dei partiti facenti parte della coalizione attualmente al governo e del pericolo che determinati dossier rappresentano per la sua stabilità. I partiti che sostengono Lapid e Bennett vanno infatti dall’estrema destra alla sinistra laica passando per Ra’am, prima formazione araba della storia a far parte di un governo israeliano. Ad augurarsi la caduta dell’esecutivo appena insediatosi è certamente Netanyahu, che ha accusato ancora una volta l’opposizione di brogli elettorali e definito il nuovo governo incapace di difendere gli interessi dei cittadini israeliani e di garantire la sicurezza dello Stato ebraico. Tutte accuse che Bennett ha rispedito al mittente nel suo discorso di insediamento alla Knesset, in occasione del quale ha anche delineato le priorità del nuovo governo tanto in politica interna quanto estera.
Il primo ministro ha promesso che il suo esecutivo si occuperà principalmente di economia, educazione e infrastrutture, aumentando il numero di lavoratori e migliorando i servizi con l’obiettivo di ridurre anche il divario tra le comunità di Israele. Così facendo Bennett spera di risanare le fratture sociali emerse durante l’ultima escalation con Hamas nelle città miste di Israele, dove si sono registrati scontri tra alcuni gruppi di ebrei ed arabo-israeliani. A gradire meno le riforme del governo Lapid-Bennett saranno invece gli ultraortodossi: entrambi i leader sono a favore di una maggiore integrazione degli haredim nel mondo del lavoro, della riduzione dei sussidi pubblici dedicati alla loro comunità e dell’eliminazione dell’esenzione dal servizio militare. Bennett tra l’altro ha anche annunciato la liberalizzazione delle licenze kosher, fino ad oggi appannaggio di un ente rabbinico specializzato legato al mondo degli ultraortodossi e fonte di lauti guadagni.
A rischiare di minare i rapporti con gli arabi è invece il progetto abitativo del primo ministro. Bennett vuole costruire nuove case in tutta Israele per ridurre i costi delle abitazioni, ma nel fare ciò dovrà fare i conti con i problemi legati alla concessione di permessi edilizi e alle dispute sulla proprietà di terreni e immobili che affliggono principalmente la comunità araba, come dimostra il caso del quartiere di Sheikh Jarrah.
Dossier per il momento messi da parte sono invece quelli dei rapporti con l’Autorità nazionale palestinese e degli insediamenti ebraici. Bennett è un noto sostenitore dell’espansionismo israeliano in Cisgiordania e non crede in una risoluzione della questione palestinese, mentre altri partiti della sua coalizione sono a favore della creazione dei due Stati. In fase di negoziazione, i politici riunitisi intorno a Lapid e Bennett avevano promesso di non affrontare nell’immediato questioni così divisive, ma il governo dovrà decidere a breve se concedere o meno l’autorizzazione finale per un nuovo progetto di insediamenti e se ripristinare il flusso di aiuti per Gaza provenienti dal Qatar. Tutti punti su cui è facile prevedere uno scontro tra le forze della maggioranza.
Ma la prima preoccupazione del nuovo esecutivo in politica estera resta l’accordo sul nucleare iraniano. Seguendo la stessa linea del suo predecessore, Bennett ha rimarcato l’opposizione di Israele ai colloqui tra USA e Iran in corso a Vienna e ricordato che lo Stato ebraico manterrà la sua libertà d’azione nei confronti di un Paese che reputa un nemico. Tuttavia, a differenza di Netanyahu, Bennett non ha alcuna intenzione di sfidare il presidente Joe Biden, che ha anzi voluto ringraziare per la vicinanza dimostrata in occasione dell’escalation con Hamas. Il nuovo premier ha anche promesso di rafforzare i legami con gli Stati Uniti e con la diaspora ebraica, in controcorrente rispetto alla politica adottata da Netanyahu e che puntava principalmente ad ottenere il sostegno dei più numerosi cristiani evangelici. In ultimo, il nuovo premier si è impegnato a portare avanti il progetto di normalizzazione dei rapporti con gli Stati a maggioranza musulmana, ma rischia di commettere gli stessi errori del suo predecessore. Bennett, come Netanyahu, non considera prioritaria la risoluzione della questione palestinese, ma l’escalation di maggio con Hamas ha dimostrato che non è possibile rafforzare i legami con i Paesi musulmani mettendo da parte il futuro dei palestinesi. Che hanno ben poco da gioire per questo cambio al governo.