1 ottobre 2020

Cosa ci fanno i siriani nel Nagorno-Karabakh?

La conferma della morte di almeno tre guerriglieri siriani nel Nagorno-Karabakh arriva a poche ore dalla smentita televisiva del presidente azero, llham Aliyev, della presenza di forze straniere nella regione contestata nella quale si è riaperto il conflitto tra il suo Paese e l’Armenia. Ma la loro presenza è il sintomo di un conflitto ormai divenuto regionale o piuttosto indizio di un’operazione funzionale alle difficoltà interne vissute negli ultimi mesi dal regime azero?

In un dibattito televisivo trasmesso sul principale canale russo, Aliyev aveva dichiarato che l’esercito azero era molto superiore a quello armeno e non aveva bisogno di alcun aiuto esterno. Ma lungi dall’essere soltanto propaganda avversaria, il coinvolgimento di mercenari provenienti dalla Siria è stato confermato sia da fonti sul campo che dalle stesse famiglie dei caduti. Secondo molti osservatori, quanto sostenuto da Aliyev sarebbe vero, dal punto di vista militare: grazie agli introiti derivanti dagli idrocarburi, nell’ultimo decennio l’Azerbaigian ha investito moltissimo per modernizzare e rafforzare le proprie forze armate, che vengono ritenute molto superiori a quelle armene. Sia come numeri (la popolazione azera è 3-4 volte maggiore di quella armena), che come tecnologie e preparazione. Allora perché schierare forze irregolari straniere? Certo, va considerato che anche nel primo conflitto l’Azerbaigian era teoricamente più forte, ma questo non bastò ad evitare un’umiliante sconfitta e la conseguente perdita del Nagorno-Karabakh stesso. Inoltre, proprio nel corso di quel primo conflitto, entrambe le parti schierarono forze irregolari: mujaheddin afghani, volontari ceceni e Lupi Grigi turchi da parte azera contro cosacchi e volontari osseti da parte armena. Con veterani della guerra di Bosnia impegnati con gli uni e gli altri, su fronti opposti. Ma al momento non siamo ancora in una situazione di offensiva a tutto campo, nella quale sia necessario ogni supporto possibile. I fronti aperti sono limitati e le forze regolari sarebbero del tutto sufficienti a gestirli.

Secondo alcuni, la ragione sarebbe eminentemente politica e di propaganda interna. E potrebbe contribuire a comprendere il motivo stesso dell’escalation in corso: ovvero la necessità del presidente azero di compattare il proprio Paese e riportare successi in battaglia per controbattere una crisi politica interna al suo regime, particolarmente acuitasi negli ultimi mesi.

Come per quanto riguarda le responsabilità storiche di questo conflitto, anche per l’attuale situazione ci sono certamente responsabilità da entrambe le parti. Ma provocazioni politiche da parte dei rispettivi governi e occasionali scambi di colpi di artiglieria sul confine rappresentano una costante della vita del Nagorno-Karabakh fin dal cessate il fuoco del 1994. A cambiare ora, in questo senso, sarebbe la necessità di Ilham Aliyev di utilizzare il fronte per consolidare il proprio potere in patria.

Dopo aver confermato ancora una volta il proprio potere assoluto nel corso delle ultime elezioni, duramente contestate dagli osservatori internazionali, Aliyev starebbe vivendo un momento di difficoltà particolarmente grave: schiacciato da un lato dal crollo del prezzo del petrolio (su cui si basa l’economia del Paese), dall’altro dall’emergenza Covid. La pandemia, a sua volta, ha rallentato ancora di più le richieste energetiche europee, che costituivano una delle due matrici (insieme alla collaborazione nella gestione dell’estremismo) su cui era stato faticosamente imbastito un rapporto privilegiato con l’Unione Europea nel corso dell’ultimo decennio. Rapporto dal quale, per inciso, nella capitale azera Baku non nascondevano di attendersi anche un rafforzamento della propria posizione diplomatica, in vista di una futura riconquista del Nagorno-Karabakh. Da tempo, infatti, il regime azero si sentiva militarmente pronto ad attaccare, ma indugiava in attesa di consolidare ulteriormente il sostegno politico internazionale. Proprio il nuovo scenario di difficoltà del regime avrebbe però spinto Aliyev all’azione.

Osservatori internazionali hanno riportato che, come prima cosa, il presidente azero avrebbe usato la stessa crisi generata dal Coronavirus come pretesto per fare piazza pulita sia della debole opposizione sia dei membri del suo stesso partito dei quali non si fidava: arresti di amministratori locali ed ex membri dell’entourage di suo padre (primo presidente azero) sulla base di violazioni alle norme anti-Covid, si succedono da mesi. Ma la mossa non avrebbe fatto calare i malumori, anzi avrebbe alimentato una faida interna tra presunti “rinnovatori” e “vecchia guardia” del regime. In questo scenario, sarebbe stata colta l’occasione di compattare il Paese contro i tradizionali nemici, conseguendo magari quelle riconquiste sul campo lungamente sognate. Una situazione nella quale mercenari stranieri potrebbero svolgere un ruolo prezioso, sul fronte propagandistico.

Alcune fonti riportano che le famiglie dei siriani morti in battaglia nel Nagorno-Karabakh sostengono che i caduti sarebbero stati assoldati settimane fa, a fronte di un pagamento cospicuo per i loro standard, con l’incarico di difendere le infrastrutture petrolifere. Si tratterebbe, secondo alcuni, di un’operazione guidata dalla Turchia, che starebbe replicando quanto già fatto in Libia (altro fronte dove Erdoğan si trova contrapposto a distanza a Putin, proprio come nel Nagorno-Karabakh) con l’invio di migliaia di siriani a sostegno dei propri alleati. Secondo altri, ciò darebbe anche adito a ipotizzare che l’offensiva possa essere stata pianificata da tempo da parte azera, rafforzando preventivamente le difese dei propri snodi energetici strategici. Al momento non è dato sapere con certezza di chi sia la responsabilità principale per questo nuovo infiammarsi del conflitto, ma la conferma della presenza dei siriani sarebbe del tutto logica con l’esigenza di propaganda interna di Aliyev.

Anche in un Paese in cui i media sono interamente controllati dal governo, tanto da essere al 168° posto su 180 Stati nel rapporto sulla libertà di stampa di Reporter senza frontiere (ricordo una bellissima prima pagina del principale quotidiano di Baku, durante un mio viaggio nel Paese, interamente occupata dal premio ad Aliyev stesso come uomo dell’anno, dalla nomina di sua moglie a capo del Comitato olimpico nazionale e dell’attività della fondazione culturale di una delle figlie) ogni morto sul fronte è comunque un danno d’immagine. L’impiego di irregolari siriani offre, da questo punto di vista, la possibilità di ampliare le azioni sul fronte, ma limitando le vittime tra i propri compatrioti.

Se così effettivamente fosse, occorre però chiedersi cosa Aliyev potrebbe ritenere un successo ai fini del proprio pubblico interno: un semplice dispiegamento di forze, la riconquista di alcuni villaggi, un’offensiva su larga scala? Nella speranza che, nel frattempo, una possibile manovra politica locale non evolva in un conflitto regionale su larga scala.

 

Immagine: L’escalation bellica tra la Repubblica del Nagorno-Karabakh e l’Azerbaigian (aprile 2016).  Crediti: Albert_Khachatryan / Shutterstock.com

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