La notizia diffusa lo scorso 17 gennaio da Yang Yi, commissario dell’Ufficio nazionale di statistica della Repubblica Popolare Cinese (RPC), secondo la quale alla fine del 2022 la popolazione continentale (che esclude i residenti di Hong Kong, Macao, Taiwan e i cittadini stranieri residenti in queste aree) era di 1.411.075 persone, con una diminuzione di 850 mila unità rispetto a quella registrata alla fine del 2021, ha fatto subito il giro del mondo ed è stata accolta con un generale senso di apprensione e di inquietudine dalla comunità internazionale, in considerazione del fatto che si è accompagnata al dato relativo alla crescita cinese per l’anno 2022 del 3%, ben lontana dalle stime ufficiali divulgate nel mese di marzo in occasione della riunione annuale dell’Assemblea nazionale del popolo (che fissavano il tetto al 5,5%), e ai livelli più bassi da oltre quattro decenni, complici i problemi legati alla crisi pandemica, soprattutto le prolungate chiusure determinate dalla politica draconiana dello “zero Covid”, l’indebolimento della domanda estera, il tracollo del settore immobiliare.

Il dato del calo demografico, che combina un tasso di natalità ai minimi storici e un indice di mortalità ai livelli più alti dal 1976, si inserisce, dunque, in un contesto nazionale instabile e incerto che porta, inevitabilmente, a riflettere su quelle che potrebbero essere le sue conseguenze, sia nel breve sia nel lungo periodo, sia per la Cina sia per il resto del mondo. I timori sono legati al fatto che il declino demografico possa essere solo all’inizio, e che il trend della decrescita della natalità potrebbe trovare conferma negli anni a venire, con gravi conseguenze oltre che per la stessa Cina – che si ritroverebbe con una popolazione sempre più vecchia e con una forza lavoro ridimensionata, che comporterebbe un inevitabile aumento del costo del lavoro – anche per il resto del mondo, in considerazione del ruolo chiave giocato dalla nazione asiatica nel trainare la crescita, quale seconda economia globale. In effetti, la pandemia ha chiaramente illustrato come i problemi interni alla RPC siano in grado di influenzare il flusso del commercio e degli investimenti globali, con i blocchi e i controlli alle frontiere che interrompono le catene di approvvigionamento.

La stampa internazionale ha riportato unanime il fatto che si tratterebbe del primo calo demografico dal 1961, quando la fallimentare politica del “Grande balzo in avanti” (dayuejin), voluta dal “grande timoniere” (weida de duoshou) per “bruciare le tappe” e accelerare la modernizzazione del Paese, aveva causato la morte per gli stenti e l’inedia di svariate decine di milioni di cinesi. Oggigiorno alla base del calo vi è, invece, una combinazione di fattori che ruotano attorno alla politica del controllo delle nascite introdotta dalla Cina negli anni Ottanta – al fine di contrastare quello che veniva considerato come un eccessivo incremento demografico, tanto da mettere a rischio la politica modernizzatrice del “piccolo timoniere” (xiao duoshou) – e alle sue conseguenze nel lungo periodo, quali il cambio di atteggiamento nei confronti del matrimonio e della famiglia tra le giovani generazioni; la radicata disuguaglianza di genere e le crescenti difficoltà legate all’allevamento e all’istruzione dei figli nelle sempre più costose città cinesi. Cause che, per quanto la crisi pandemica degli ultimi anni abbia contribuito ad esacerbare, affondano le loro radici in oltre tre decenni di “politica del figlio unico” (dusheng zinü zhengce), la quale, pur avendo assolto all’obiettivo di rallentare il tasso di crescita della popolazione, impedendo, secondo alcune stime, la nascita di ben 400 milioni di bambini, ha determinato gravi conseguenze sociali (in primis lo squilibrio tra i due sessi e l’invecchiamento della popolazione) e influenzato le scelte delle nuove generazioni urbanizzate, in particolare della cosiddetta Generazione Y o Millennials, che di fare figli non sembrano avere la benché minima intenzione. È interessante soffermarsi sulle loro motivazioni in merito, che non sono molto dissimili da quelle dei loro coetanei in molti Paesi occidentali, e che sono racchiuse nello stato di incertezza per il futuro e nel timore di non riuscire a mantenerli, visti i costi proibitivi legati alla crescita e all’istruzione di un figlio, le pressioni alle quali sono sottoposte le donne lavoratrici, ma anche nella scarsa propensione ad assumersi determinate responsabilità e nel desiderio di vivere la propria vita senza quei vincoli che inevitabilmente subentrano con la genitorialità. Non a caso, la notizia di Yang Yi in Cina è stata immediatamente seguita dalla diffusione di un hashtag su Weibo, la piattaforma cinese simile a Twitter, contenente un chiaro messaggio alle autorità governative, ossia che “per incoraggiare le nascite, bisognerebbe prima risolvere le preoccupazioni dei giovani” (guli shengyu yao xian jiejue nianqingren de houguzhiyou). In altri termini, il calo demografico viene visto dai cinesi come “inevitabile”, poiché i giovani scelgono consapevolmente di non avere figli, complice anche il rallentamento di un’economia che non cresce più ai ritmi sostenuti dei decenni precedenti, l’aumento della disoccupazione (un fenomeno pressoché nuovo nel Paese), il contestuale aumento del costo della vita, la necessità – non secondaria e comunque imposta per legge – di prendersi cura dei genitori anziani.

In tal senso, i dati dell’Ufficio nazionale di statistica non hanno rappresentato il classico fulmine a ciel sereno. Al contrario, questo momento era atteso da tempo e, difatti, già da diversi anni, il governo comunista aveva rivisto la politica del figlio unico nel tentativo di invertire il trend negativo della crescita della popolazione e contrastare la tendenza all’invecchiamento che rischiava di avere conseguenze sempre più pesanti per l’economia nazionale, a partire dalla riduzione delle entrate fiscali e le pressioni sul sistema pensionistico e sanitario, e con una potenziale perdita di dinamismo e fiducia nel futuro, determinato dal ridimensionamento del bacino di manodopera, componente indispensabile per l’ascesa della RPC a grande potenza mondiale. La prima svolta risale al novembre 2013, quando il Partito aveva concesso ad alcuni tipi di famiglie – quelle con una sola figlia femmina e quelle in cui uno dei due genitori era un figlio unico – la possibilità di avere un secondo figlio. Aveva poi fatto seguito, nell’ottobre 2015, la decisione del V plenum del XVIII Comitato centrale di decretare la fine generalizzata del controllo delle nascite, consentendo a tutte le coppie di avere due figli (erhai zhengce), finalizzata “a migliorare lo sviluppo equilibrato della popolazione” e a far fronte al problema dell’invecchiamento della popolazione, secondo la dichiarazione finale riportata negli organi ufficiali del Partito. Nel maggio 2021, infine, una riunione del Politburo, presieduta dal segretario generale Xi Jinping e dedicata specificatamente all’invecchiamento della popolazione,  si chiudeva con la decisione di consentire fino a tre figli per coppia (sanhai zhengce).

Tale decisione, che appariva strettamente legata alla pubblicazione degli esiti del VII censimento nazionale della popolazione, che aveva rivelato per il 2020 un numero di nascite nella Cina continentale di soli 12 milioni (il più basso dal 1960), si era accompagnata a tutta una serie di contributi e aiuti, quali agevolazioni fiscali, permessi di maternità più lunghi, sussidi per le case, volti ad incentivare le nascite. Queste, tuttavia, non sembravano avere alcuna presa nella popolazione cinese, che non accettava più che il Partito entrasse nelle scelte più intime della coppia e della sua componente femminile in particolare (come ai tempi delle rigidissime misure imposte nel rispetto della politica del figlio unico), soprattutto nei centri urbani. In effetti, come si è già accennato, tra le cause persistenti della bassa natalità cinese vi sono il crescente inurbamento, la progressiva partecipazione femminile al mondo del lavoro e il crescente aumento del livello di istruzione, che alimenta prospettive di carriera, con tutto ciò che ne consegue. Nelle grandi città si vanno diffondendo da diversi lustri modelli alternativi di famiglie, come le cosiddette dingke jiating, famiglie DINK (Double Income No Kids), ossia coppie di giovani che decidono di non fare figli perché di intralcio alle loro carriere e ai loro progetti di vita, che contemplano viaggi e tempo libero, oltre a riserve crescenti di donne single che godono sempre più di indipendenza e potere d’acquisto. Si tratta senza dubbio di una tendenza di difficile inversione, ma che il Partito non può permettersi di sottovalutare. Anzi, secondo alcuni esperti, questa situazione dovrebbe fungere da campanello d’allarme per la Cina, per accelerare le riforme del suo sistema sanitario e pensionistico ancora altamente inefficienti e diseguali e approntare misure volte a far fronte a uno scenario dalle inevitabili conseguenze sull’economia nazionale, simile a quello intrapreso da Giappone e Corea del Sud, che rischierebbe di comprometterne le ambizioni quale grande potenza economica globale.

Immagine: Folla sulla via pedonale Qianmen, Pechino, Cina (6 febbraio 2019). Crediti: Fotokon / Shutterstock.com

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