Mentre la situazione nelle piazze in Kazakistan sembra tornata sotto controllo, più complicata si fa quella nelle stanze del potere: tra ordini di sparare a vista sui protestanti, arresti di generali, presunti tentativi di colpi di Stato e il fiato sul collo delle truppe di Putin, che mettono a rischio l’equilibrio geopolitico del ricco gigante centroasiatico.
Nonostante le tante analisi che in queste ore giustamente sottolineano le condizioni di ingiustizia nel Paese e le contraddizioni del dispotico regime kazako, come se l’esplosione di questa situazione fosse inevitabile, la verità è che quasi nessuno se la aspettava. Anzi, quando meno di un mese fa quelle stesse piazze ospitavano le celebrazioni per il trentennale dell’indipendenza kazaka, a tutti era sembrato che il vecchio presidente Nursultan Nazarbaev fosse riuscito nell’impossibile compito di passare il potere in modo pacifico al proprio delfino, mantenendo un ruolo prominente nel Paese che aveva controllato per trent’anni, plasmandolo col pugno di ferro, a propria immagine e somiglianza.
È ancora difficile ricostruire cosa sia successo esattamente in questi pochi giorni di violenta repressione delle proteste, costate la vita a decine di kazaki, ma di certo sono stati sufficienti a mandare all’aria tutto questo. L’attuale presidente Tokayev ha schiacciato i manifestanti con una brutalità inedita, con molte decine di morti e oltre quattromila arresti. Inoltre, ha colto l’occasione per tagliare ogni legame con il passato regime, estromettendo Nazarbaev da ogni carica e facendo arrestare il potente generale Karim Masimov. Proprio la notizia dell’arresto di Masimov, in passato anche primo ministro durante la presidenza di Nazarbaev, sta facendo riconsiderare in queste ore quanto accaduto precedentemente, con molti analisti che ora sospettano che la genuina esplosione delle proteste popolari sia stata successivamente sfruttata da figure interne al regime (forse vicine allo stesso ex presidente?) per un tentativo di colpo di Stato.
Se tale ipotesi fosse confermata, ciò aiuterebbe a spiegare la richiesta di intervento di truppe russe da parte di Tokayev, sotto l’egida dell’Organizzazione del trattato di sicurezza collettiva. L’OTSC non aveva fino ad ora mai dispiegato forze militari all’estero, né c’era stato bisogno che intervenisse nel 2020 in Bielorussia o in altri Paesi membri. Per giustificare la richiesta in tal senso, Tokayev ha quindi ripetutamente sostenuto che dietro alle proteste ci fossero imprecisati «soggetti stranieri», ma a questo punto appare più probabile che la vera ragione fosse che in quel momento sapesse di non potersi fidare delle proprie forze di sicurezza.
La rapidissima decisione di Putin di autorizzare l’intervento in Kazakistan, per di più proprio in un momento in cui le truppe russe sono già dispiegate con priorità strategica e in gran numero sul confine con l’Ucraina, mostra chiaramente l’importanza che il Kazakistan ricopra nello scenario geopolitico regionale e globale. Per almeno due ragioni: una più strutturale e legata alle sue risorse, l’altra più personale e legata alla comune esperienza dei leader delle cosiddette democrature ex sovietiche.
L’enorme territorio del Kazakistan, dalla superficie superiore a quella dell’intera Europa occidentale, si trova in una posizione strategica di collegamento tra quest’ultima, la Russia e la Cina (per la quale, non a caso, occupa un ruolo importante nella cosiddetta Belt and Road Initiative). Ma soprattutto ospita risorse energetiche e minerarie tra le più ricche al mondo. Negli ultimi anni, oltre a rame e oro, sono in particolare le grandi miniere di uranio, cromo, zinco e manganese a essere sempre più ricercate dalle industrie. La sua economia, però, è stata tradizionalmente basata sullo sfruttamento dei giacimenti di petrolio e gas naturale del Nord del Paese. Nazarbaev aveva saputo farli fruttare (soprattutto a favore della ristretta oligarchia di suoi fedelissimi) mantenendo buoni rapporti sia con la Russia che con l’Occidente, così da poter puntare sempre sul miglior offerente. Nonostante il legame privilegiato con Mosca, per esempio, sono presenti in Kazakistan anche Exxon Mobil e Chevron, ma anche l’italiana Eni. Proprio in un impianto legato al gruppo italiano, nella città petrolifera settentrionale di Jañaözen, erano scoppiati nel 2011 gli scontri più grandi contro il regime, fino a quelli della scorsa settimana. Anche in quell’occasione, la protesta degli operai in sciopero contro le terribili condizioni di lavoro era stata schiacciata dalle forze dell’ordine, con un massacro costato la vita a sedici persone.
Proprio nella stessa zona hanno avuto il via anche le manifestazioni di domenica scorsa, questa volta scatenate dall’eliminazione del tetto massimo al prezzo del GPL, ma successivamente allargatesi fino a includere richieste di rinnovamento e ricambio politico. Sono queste ultime ad avere scatenato la reazione di Tokayev e l’invio delle truppe di Putin, in quella solidarietà tra leader ex sovietici causata dalla comune preoccupazione di perdere il potere per proteste di piazza, che il Cremlino ritiene peraltro essere in realtà favorite e strumentalizzate dai servizi occidentali.
Dopo avere perso il controllo della situazione in Ucraina, nel 2014, Vladimir Putin si è ripromesso di non lasciare più che ciò accada, intervenendo prima che sia troppo tardi. Come dimostrato per esempio con il sostegno diplomatico a Lukašenko nel 2020 e ora con quello, sia politico che militare, a Tokayev. Un sostegno efficace sul breve termine, ma che mette ora in discussione quello che era ritenuto il più grande successo di Nazarbaev, ovvero la capacità di mantenere la propria indipendenza non solo dal punto di vista formale, ma anche sostanziale. Per quanto limitato per dimensioni e presumibilmente anche nel tempo, infatti, l’impegno russo sul campo cambierà inevitabilmente il peso di Mosca nell’equilibrio in cui aveva saputo fino ad ora destreggiarsi il Kazakistan. Il quale al proprio interno ospita anche una consistente comunità di origine russa, attualmente pari a circa un quinto della popolazione, ma fino a pochi decenni fa talmente numerosa da superare numericamente gli stessi kazaki.
Proprio per i legami consolidati tra i due Paesi e per il fatto di avere sistemi politici molto simili, Putin guardava con grande interesse all’apparente successo della pacifica transizione di potere post-Nazarbaev, secondo alcuni accarezzando l’idea di prepararsi a fare altrettanto. Ora che abbiamo assistito all’esautorazione dell’ex presidente da parte del suo erede, mentre la popolazione ne abbatteva le statue e si rincorrevano le voci di una sua fuga all’estero, l’opzione kazaka finirà per risultare inevitabilmente meno attraente, con il rischio di alimentare una spirale sempre più repressiva, non solo in Kazakistan.