Nel 2018 si festeggia un anniversario importante nella Repubblica Popolare Cinese (RPC), ovvero il quarantesimo dell’avvio di quel processo riformistico che ha consentito al Paese di vivere il suo miracolo economico (con tempistiche del tutto inedite) e di recuperare quel rispetto e quella centralità che gli erano appartenuti in passato e che l’irruzione europea, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, aveva contribuito a cancellare. Il processo di “riforma e apertura’ (gaige kaifang) lanciato da Deng Xiaoping in occasione del III plenum dell’XI Comitato Centrale (CC) del Partito Comunista Cinese (PCC), nel dicembre del 1978, è, infatti, alla base degli straordinari successi conseguiti dalla RPC, sia a livello economico sia a livello politico-diplomatico, a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso. Negli ultimi quattro decenni l’economia cinese è cresciuta ad un tasso medio del 10% annuo circa, con conseguenti aumenti sostanziali dei guadagni della popolazione, un considerevole miglioramento delle condizioni di vita della maggioranza dei cinesi e una riduzione drastica della povertà. Stando alle stime della Banca mondiale, dal 1978 sono ben 800 i milioni i cinesi usciti dalla condizione di povertà assoluta (cui appartengono coloro che vivono con meno di 1,90 dollari al giorno), sebbene ancora nel 2010 circa l’11% della popolazione (150 milioni di persone) continuasse a vivere con meno di questa cifra e circa il 27% (circa 360 milioni di persone) avesse uno stipendio inferiore ai 3,10 dollari al giorno.

Ciò detto, bisogna anche riconoscere che la crescita economica non ha riguardato l’intero Paese in egual misura – in prevalenza le zone costiere, meno le zone centrali e quelle occidentali; le aree urbane piuttosto che le aree rurali. In altri termini, la società cinese, sviluppandosi, è diventata sempre più squilibrata, dal punto di vista della distribuzione della ricchezza e la Cina è passata dall’essere uno dei Paesi più omogenei ed equi (quale era in epoca maoista) ad uno dei più iniqui a livello mondiale. L’indice di disuguaglianza (misurato con il coefficiente di Gini), che era pari allo 0,3% nel 1980, ha raggiunto il picco dello 0,49 nel 2007, attestandosi allo 0,465 nel 2016, ben oltre il livello di guardia fissato dall’ONU (0,40). Un rapporto dell’Istituto di scienze sociali dell’Università di Pechino, nel 2015, ha rilevato come oltre un terzo della ricchezza complessiva del Paese sia in mano all’1% delle famiglie, laddove il 25% più povero vive con un analogo 1%.

Secondo la Global rich list 2017, pubblicata da Hurun (il Forbes cinese), la Cina registra in assoluto il maggior numero di miliardari (609 contro i 552 statunitensi) che posseggono una ricchezza complessiva pari al 2,1% del PIL mondiale; analogamente, Pechino si attesta, per il secondo anno consecutivo, al primo posto tra le città con più miliardari al mondo – 94 contro gli 86 di New York. Tra i due estremi ci sarebbe una “consistente” classe media (zhongchan jieji), composta, secondo i parametri dell’Accademia cinese delle Scienze sociali (che include gli individui con una fascia di reddito compresa tra gli 11,800 e i 17,700 dollari all’anno), da oltre 480 milioni di persone, che presenta caratteristiche ben precise: giovane età, elevato livello di istruzione, residenza nei centri urbani, proprietà della casa di abitazione, elevata propensione a viaggiare, utilizzo dei social networks, attitudine all’acquisto di prodotti tecnologici e allo shopping online. Essa sarebbe strettamente legata al PCC, visto e considerato che lo sviluppo economico del Paese e le attività economiche imprenditoriali sono direttamente o indirettamente sotto il suo controllo. E da essa dipende il successo del nuovo corso dell’economia cinese ribattezzato “nuovo normale” (xin changtai), inserito nel XIII piano quinquennale (2016-20), che punta ad una crescita economica meno sostenuta (con un tasso compreso tra il 6,5 e il 6,9%) e a un ribilanciamento delle diverse componenti dell’economia, con una minore dipendenza dalle esportazioni e una crescita dei consumi interni. Un ruolo fondamentale nel raggiungimento di quest’ultimo obiettivo è giocato proprio dal ceto medio.

Se è innegabile, dunque, che la crescita degli ultimi decenni ha avuto effetti estremamente positivi, con aumenti considerevoli del PIL pro capite, con una riduzione drastica della povertà assoluta, e con sensibili miglioramenti delle condizioni di vita della maggioranza della popolazione, è vero anche che non tutte le regioni del Paese sono state coinvolte in questo processo di sviluppo e non tutte le categorie sociali ne hanno beneficiato. Anzi, la forte crescita di alcune aree geografiche, accompagnata dallo scarso sviluppo di altre, ha determinato un acuirsi delle diseguaglianze di reddito e un ampliarsi del divario nelle condizioni di vita degli abitanti delle diverse regioni, così come delle zone urbane rispetto a quelle rurali, che sono andate consolidandosi con il passare del tempo e rappresentano oggigiorno una delle minacce principali alla stabilità della società, che rischia di mettere a repentaglio le sorti del partito. L’emergere delle disuguaglianze, prima tenute basse dalla scarsa crescita globale e dalla pianificazione centrale dell’economia, è cominciato proprio in seguito alle prime iniziative di apertura economica, con l’invito di Deng Xiaoping a lasciare che «alcune persone si arricchissero prima di altri» (rang yibufen ren xian fu qilai), perché «arricchirsi è glorioso» (facai zhifu guangrong), laddove la «povertà non è socialismo» (pinqiong bushi shehuizhuyi).

Pechino ha iniziato a prestare una certa attenzione alle problematiche in questione negli anni Duemila, con la leadership guidata da Hu Jintao e Wen Jiabao – il concetto di “sviluppo scientifico” (kexue fazhan guan), che riassume il pensiero teorico di Hu, è apparso per la prima volta tra le “Risoluzioni” del III plenum del XVI CC del PCC, nell’ottobre 2003; nel 2006, il VI plenum del XVI CC ha posto al centro il concetto di costruzione di una «società armoniosa» (hexie shehui) – come conferma l’inserimento del pensiero teorico di Hu nello Statuto del PCC in occasione del XVII Congresso del partito (ottobre 2007), che ha sancito il consolidamento del suo potere con la conferma per un secondo mandato. Il concetto di “visione di sviluppo scientifico”, nella versione emendata dello Statuto, è definito come uno sviluppo «globale, coordinato e sostenibile» (quanmian, xietiao, ke chixu), e può considerarsi come la conditio sine qua non per la realizzazione della sopraccitata «società armoniosa (socialista)» (shehuizhuyi hexie shehui). In tal modo, i governanti cinesi dimostravano di aver preso atto della situazione di squilibrio, creatasi nella Cina del miracolo, prevedendo di risolvere la questione promuovendo l’armonia sociale e il progresso.

La posta in gioco è molto alta, se è vero che stando agli esiti di un sondaggio condotto dal Pew Research Center nel 2015, il gap tra ricchi e poveri rientra tra le «quattro questioni più preoccupanti» (zui danxin de wenti) dei cinesi (assieme a corruzione, inquinamento dell’aria e terrestre). Si tratta di capitoli fondamentali dell’agenda politica che il governo comunista deve affrontare e cercare di risolvere, in vista non solo del raggiungimento dei due “obiettivi centenari” (liangge yibai nian ‘fendou mubiao’) – la creazione di una “società moderatamente prospera” (xiaokang shehui) entro il 2021 e la trasformazione della Cina in un Paese ricco e forte (fuqiang de shehuizhuyi guojia) entro il 2049 –, ma anche, e soprattutto, per garantire la sua sopravvivenza al potere e il futuro del socialismo cinese. La “nuova era del socialismo con caratteristiche cinesi” (xin shidai Zhongguo tese shehuizhuyi) che rappresenta il fulcro del “Pensiero di Xi Jinping” (Xi Jinping sixiang), passa, non a caso, dall’applicazione di politiche volte ad allargare l’uguaglianza sociale attraverso un miglioramento delle condizioni di vita del popolo cinese.

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