È stato un discorso dissonante e contraddittorio, quello pronunciato questa notte da Donald Trump nell’annuale riflessione presidenziale sullo stato dell’Unione. E un discorso destinato a essere archiviato abbastanza rapidamente.

La dissonanza sta nel tentativo di combinare un messaggio doppio e sostanzialmente inconciliabile: quello sobrio, istituzionale e bipartisan ‒ della collaborazione, del compromesso, della politica estera cauta e realista ‒ indispensabile per poter governare quando il partito del presidente non controlla più i due rami del Congresso; e quello populista, radicale e antielitario, funzionale a tenere mobilitata una base elettorale repubblicana a oggi fermamente schierata dalla parte del presidente.

I richiami alla necessità di superare le divisioni e lavorare assieme sono stati numerosi, ma invariabilmente piegati alle esigenze politiche del presidente, su tutte quella di evitare che le inchieste in corso e future – quella del procuratore indipendente Mueller e le tante prossime ad aprirsi in varie commissioni della Camera – possano danneggiare Trump e la sua famiglia. Il richiamo alla bipartisanship diviene qui richiesta di garantire una sorta di privilegio presidenziale: un’invocazione all’immunità – «per esservi pace e legislazione non possono esservi guerra e investigazione», ha tuonato Trump – e una denuncia, quindi, delle indagini come fattore intrinsecamente divisivo e destabilizzante. La retorica della necessaria convergenza bipartitica si è tradotta a sua volta in definizione assai vaga dei possibili ambiti di compromesso: la riforma del sistema penale, oggi ampiamente condivisa dopo decenni di politiche draconiane di “tolleranza zero” e una contestuale esplosione della popolazione carceraria, che solo negli ultimi anni ha conosciuto una prima riduzione; un vasto piano d’investimenti infrastrutturali, per mettere mano a una rete straordinariamente obsoleta e inefficiente, che Trump promette da tempo, ma rispetto alla quale in questi due anni si è fatto poco o nulla.

Più dettagliata e precisa è stata invece l’elencazione di quelle tematiche che servono al presidente per soddisfare e mobilitare l’elettorato conservatore. Un lungo passaggio contro l’aborto, condito da frasi ad effetto («riaffermiamo una verità fondamentale, che tutti i bambini – nati e non nati – sono fatti nell’immagine sacra del Signore») a uso e consumo di quella base evangelica che continua a sostenere Trump con entusiasmo. Gli inevitabili passaggi apocalittici sull’immigrazione e i pericoli di cui si farebbe portatrice: una «impellente emergenza nazionale», ha dichiarato il presidente, provocata primariamente dallo «stato di anarchia (lawless)» in cui verserebbe il confine meridionale degli Stati Uniti. Gli attacchi, infine, al rischio di una deriva socialista del Paese resa più credibile dai risultati delle ultime elezioni di midterm e della chiara virata a sinistra del Partito democratico («questa sera riaffermiamo il nostro impegno affinché l’America non diventi mai un Paese socialista»). Un ovvio anticipo della futura campagna presidenziale, quest’ultimo riferimento al socialismo, nel quale si mescolano diversi elementi, su tutti un nazionalismo eurofobico che Trump e i repubblicani stanno cavalcando da alcuni mesi, in modo talora molto goffo e spregiudicato (come nel bizzarro studio del Council of Economic Advisers dell’ottobre scorso atto a dimostrare la presunta superiorità del modello statunitense su quelli delle socialdemocrazie scandinave). Nessun cenno, infine, a quello che era stato il cavallo di battaglia dei repubblicani durante le presidenze Obama: i conti pubblici disastrati e la necessità quindi di politiche fiscali oculate e rigorose. Deficit e debito sembrano essere usciti dal vocabolario politico, con il primo che sfiorerà il 5% del PIL nel 2019 e uno scarto, nel 2018, assai marcato tra gettito (+0,4%) e spesa (+4,4%), in un anno in cui la crescita è stata peraltro superiore al 3%.

Cosa resta quindi di questo discorso e cosa ci dice della presidenza Trump e della lunga corsa verso le presidenziali 2020? In estrema sintesi, tre cose.

La prima è che lo scontro politico non è destinato ad attenuarsi e che, in un’epoca ad alto tasso di polarizzazione come quella attuale, il governo diviso spinge non al compromesso legislativo ma alla sclerosi e alla contestuale propensione del presidente ad agire per via esecutiva o amministrativa (come ben si è visto con Obama).

La seconda è che Trump ha bisogno di tenere alta la soglia del conflitto per evitare possibili insorgenze e defezioni tra i repubblicani; il 90% di consenso di cui gode tra gli elettori del suo partito costituisce infatti una sorta di polizza, che gli permette di contenere eventuali sfide nelle primarie e di evitare iniziative bipartitiche sgradite al Congresso.

Terza e ultima: l’utilizzo da parte del presidente di una retorica demagogica e populista ‒ che contrappone le élites al popolo – stridente rispetto alle scelte politiche compiute (l’assalto alla riforma sanitaria di Obama; le politiche fiscali regressive; la deregulation in ambito finanziario), ma efficace nel catturare l’immaginario di una parte di elettorato, soprattutto una middle class bianca spaventata e incattivita, vittima prima del combinato disposto di tagli alle tasse e politiche redistributive verso i redditi più bassi, alla ricerca di facili capri espiatori – immigrati su tutti – capaci di spiegare la condizione di crescente precarietà nella quale versa.

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