1 giugno 2023

Donne e jihad: reclutamento e radicalizzazione

 

I giudici milanesi della Corte d’assise d’appello hanno recentemente condannato Bleona Tafallari, arrestata a Milano a novembre 2021, a quattro anni di reclusione, con l’accusa di associazione con finalità di terrorismo internazionale. La cosiddetta Leonessa dei Balcani era, secondo i giudici, inserita in un contesto «di allarmante gravità», col marito miliziano dell’Isis, parente dell’attentatore di Vienna, Fejzulai Kujtim, che nel 2020 scosse la capitale austriaca. In base a quanto emerso dalle indagini della Digos, la ragazza avrebbe sposato il radicalismo jihadista e svolto attività di arruolamento e proselitismo, anche tra minorenni.

La vicenda di Bleona Tafallari induce ad una riflessione più approfondita sul rapporto tra donne e jihad. In primo luogo, occorre rilevare che i luoghi privilegiati della radicalizzazione delle donne attive nel jihad di cui si ha notizia, fuggite, arrestate o espulse, sono in prevalenza le reti familiari, le mura domestiche e le reti amicali dei social network. È interessante notare, a questo proposito, che nella letteratura islamica classica, che presenta un ampio numero di trattati sul tema del jihad, le donne non rivestono alcun ruolo importante. Infatti, se jihad per gli uomini significa combattimento e sacrificio, per le donne rimanda principalmente al loro ruolo di mogli ubbidienti che tengono in ordine il nido familiare. Gli esperti di fiqh, (i fuqaha), ossia del diritto canonico musulmano, sostengono principalmente che le donne debbano stare nelle retrovie ed aiutare curando i feriti, occupandosi dell’approvvigionamento ed incoraggiando i combattenti. Anche nella letteratura contemporanea sul jihad, la maggior parte dei testi sostiene che la donna non dovrebbe prendere parte ai combattimenti a meno che non vi siano circostanze estreme che minacciano l’intera comunità islamica, cioè quando il jihad è considerato fard ayn difensivo, cioè obbligo per l’intera comunità musulmana di combattere in difesa del territorio e del suo credo. Anche in questo caso, la maggior parte degli studiosi sostiene che per la donna la partecipazione al jihad sia un’opzione più che un obbligo vero e proprio.

In tempi più recenti però il veterano afghano Abd Allah Azzam, ha pubblicato nel 1984 una fatwa in cui sosteneva che «il jihad è un’azione dovuta da ogni musulmano, indipendentemente dal sesso». In un’altra fatwa, sempre Azzam sosteneva che il jihad fosse fard ayn, cioè un obbligo religioso che tutti i musulmani devono adempiere contro gli infedeli, senza la necessità, quindi, per le donne, di chiedere il permesso al padre, al marito, o a qualsivoglia loro protettore per prendervi parte e questo sebbene nel 2004 proprio Azzam abbia sostenuto anche che «la partecipazione delle donne nel jihad è prevista dalla sharia ma aprire la porta [alla partecipazione delle donne al jihad] implica un gran male». Le affermazioni di Azzam sono solamente uno dei tanti esempi di come gli atti suicidi di jihad compiuti dalle donne siano sempre stati argomento controverso. Probabilmente, l’unico ad aver esplicitamente richiesto l’intervento femminile nel jihad è stato il leader di al-Qaida in Iraq, Abu Mus’ab al-Zarqawi, prima di essere ucciso nel 2006. In un suo proclama, infatti, al-Zarqawi dichiarò che: «la guerra è scoppiata. Se voi [uomini musulmani] non sarete degli zelanti cavalieri in questa guerra, lasciate che siano le donne ad intraprenderla. Sì, per Dio, gli uomini hanno ormai perso la loro mascolinità».

 

La crescente tendenza da parte dello Stato islamico a reclutare sempre più donne al suo interno è certamente qualcosa di nuovo nella recente storia dello jihadismo. In realtà, le donne per lo Stato islamico sono delle vere e proprie pietre miliari su cui fondare e far crescere il Califfato, soprattutto in funzione dei suoi obiettivi politici ed ideologici. All’interno dello Stato islamico le donne non hanno solo l’obbligo di essere buone mogli e madri delle future generazioni di jihadisti, ma sono esse stesse fondamentali per molte altre ragioni: possono trasformarsi in agenti operativi utilizzati in prima linea, fungere da strumenti di reclutamento che spingono donne e uomini ad arruolarsi nei ranghi dello Stato islamico, possono operare come polizia morale, incentivare al combattimento, divenire canali di finanziamento quando vendute come schiave sul mercato nero, ma possono trasformarsi anche in strumenti di propaganda. Tra i ruoli operativi, spiccano quelli di maestre ed educatrici, figure fondamentali per formare e allevare una nuova generazione di jihadiste fedeli. Sono anche responsabili dell’organizzazione di matrimoni combinati tra le proprie studentesse e i foreign fighter. Inoltre, spiano per conto di Isis le vite dei loro studenti e delle loro famiglie, e chiedono a questi di denunciare le possibili violazioni delle leggi della sharia da parte dei genitori. Gli insegnamenti delle maestre, quindi, sono un’arma fondamentale per l’istruzione mirata delle nuove generazioni, per insegnare alle ragazze come occupare posizioni importanti e, in caso, gestire gli affari dello Stato.

Il profilo sfuggente delle donne attive nel jihad per conto dell’Isis è ben rappresentato dalla storia di Hasna Aitboulahcen, 26 anni, nata in Francia, a Clichy-la-Garenne, il 12 agosto 1989. Divenuta jihadista dell’Isis, quando nel 2015 l’Europa veniva colpita da una serie di atti terroristici, è morta in un’esplosione in cui è stato coinvolto il cugino, il terrorista Abdelhamid Abaaoud. Hasna non era conosciuta ai servizi antiterrorismo, aveva una doppia vita: dirigente d’azienda alla luce del sole, guerrigliera jihadista nell’oscurità delle sue frequentazioni. Cosa ha spinto questa donna, ed altre, ad una decisione simile? Alla base della scelta delle ragazze di immolarsi vi sono principalmente sentimenti di vendetta per la morte di fratelli, mariti o padri, oltre a rancori maturati in anni di violenza. A volte pesa anche il retroterra culturale ed economico. Eppure ad oggi la chiave di accesso più convincente alla mente delle giovani terroriste sembra essere il potere di condizionamento pressoché totale che le organizzazioni riescono ad avere su di loro, una vera e propria “obbedienza all’autorità” che le induce a fare tutto ciò che viene loro chiesto.

 

Immagine: Una donna velata brucia il giornale. Crediti: KAZLOVA IRYNA / Shutterstock.com

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