12 marzo 2020

Due forze e due debolezze di Biden

 

Le vittorie elettorali nel mini-Tuesday ‒ in particolare quella in Michigan, un cruciale Swing State alle presidenziali di novembre – proiettano Joe Biden verso la nomination democratica. Il cammino è ancora lungo e almeno di un ritiro di Sanders sarà rallentato da un meccanismo proporzionale di allocazione del voto che rende più faticoso il raggiungimento della fatidica maggioranza di 1991 delegati. Ma la dinamica attivata dal voto in South Carolina, e accelerata poi dal Super Tuesday, appare oggi inarrestabile. In modo a dir poco sorprendente, Biden è riuscito a rialzarsi da una situazione che sembrava compromessa, dopo le pessime performance in numerosi dibattiti televisivi, un momento di crisi che parve quasi irreversibile nella raccolta di finanziamenti e le pesanti sconfitte in Iowa e New Hampshire. Si avrà modo e tempo di studiare come ciò sia stato possibile: in che modo si sia realizzata una resurrezione elettorale difficilmente immaginabile e con pochi precedenti.

Ora però ci si deve interrogare sull’effettiva forza elettorale di Biden in prospettiva presidenziale; su quali siano le sue effettive possibilità di successo contro Trump, in un contesto di suo mutevole, reso ancor più volatile e imprevedibile dal Coronavirus e dai suoi effetti sulla politica statunitense. In estrema sintesi possiamo individuare due forze e due debolezze di Biden.

Primo elemento di forza: Biden sembra la figura ideale per ovviare a quello che fu un evidente limite di Hillary Clinton quattro anni fa, ossia l’incapacità di mobilitare appieno, soprattutto nel Midwest deindustrializzato, due segmenti elettorali fondamentali per i democratici come gli afroamericani e i bianchi con livelli d’istruzione bassi e medio-bassi. Nel 2016, lo sappiamo bene e mille studi oggi ce lo dicono, non vi fu alcuna grande mobilitazione della working class bianca a sostegno di Trump. È, quella, una leggenda che resiste pervicacemente in resoconti giornalistici tanto popolari quanto abborracciati nell’analisi dei dati e dei flussi elettorali. È però vero che i democratici non riuscirono a generare l’entusiasmo necessario a portare alle urne alcune loro vitali constituencies. Proprio il dato del Michigan ce lo mostra in modo eclatante e finanche paradigmatico: per poco più di 10.000 voti di differenza (lo 0.3%) Hillary Clinton perse i 16 elettori dello Stato; la differenza tra il risultato di Trump e Clinton nel 2016 e quello di Obama nel 2008 fu di quasi 600.000 voti, uno scarto macroscopico, superiore al 20%. Per la sua storia e il suo messaggio, Biden costituisce la figura ideale per riportare alle urne questi elettori. I suoi rapporti di lungo corso con il sindacato, quelli consolidati con la comunità nera e, anche, un suo certo conservatorismo culturale paiono offrirgli gli strumenti con cui farlo. E i primi dati che giungono dal Michigan, che confermano e rafforzano quelli del Super Tuesday, lo evidenziano bene.

Biden non solo ottiene una larga maggioranza del voto afroamericano, ma porta molti più elettori neri alle urne; soprattutto – e questo è il dato più significativo – cresce in maniera esponenziale la partecipazione di votanti bianchi con livelli d’istruzione bassi e medio-bassi (senza un “college degree”). I dati di cui disponiamo si basano su exit poll che hanno un inevitabile margine di errore; anche fatta la tara a quest’ultimo, lo scarto rimane nondimeno rilevante: quest’anno l’elettorato bianco senza diploma di laurea sarebbe il 37% del totale, in linea con il 36% di quattro anni fa; cambia però massicciamente il denominatore, che quest’anno a votare per le primarie ci sono tra i tre e i quattrocentomila elettori in più. Un numero – per fare un banale esercizio di scuola – che sarebbe stato più che sufficiente per far vincere Hillary Clinton nel 2016.

La seconda forza di Biden deriva, paradossalmente, proprio dal suo profilo dentro il Partito democratico. Figura, sì, moderata e centrista, ma al contempo padre nobile, potenzialmente non interessato – per banali ragioni anagrafiche – a un secondo mandato, legato ovviamente all’esperienza popolarissima delle presidenze Obama. Biden, lo ricordava qui Mattia Diletti, sarà chiamato a “rassicurare” e mobilitare la sinistra sandersiana: un pezzo di elettorato disilluso che, secondo sondaggi che tanto hanno fatto discutere, minaccia di defezionare in massa a novembre. E però quella sinistra non è contro Biden che si è attivata, con metodi e attacchi non di rado discutibili, in queste primarie. Il suo punching ball preferito è stato di gran lunga Pete Buttigieg, l’enfant prodige che minacciava di dare nuova linfa e vitalità al centro liberal. Biden potrebbe in altre parole risultarle meno indigesto, anche perché presidente debole e di transizione, in una fase storica in cui il Partito democratico slitta inesorabilmente a sinistra. Appare insomma plausibile che Biden possa contenere più di altri centristi un’emorragia di voti sandersiani in novembre; senza considerare che proprio il 2016 ci indica come questa emorragia non sia scontata o ineluttabile, che studi recenti l’hanno ricondotta entro percentuali fisiologiche e pare anzi che sia stata inferiore rispetto a quella dei voti che andarono alla Clinton alle primarie del 2008 e poi non a Obama alle presidenziali.

Se due sono le forze, due però sono anche le debolezze. Come qualsiasi candidato democratico, Biden deve coprire uno spazio elettorale assai più ampio e composito in termini ideologici, demografici e sociologici. Ma deve anche catturare un pezzo di indipendenti e contenere la contro-mobilitazione repubblicana. Sulla sua capacità di farlo è lecito nutrire più di un dubbio. Biden è al centro dell’Ukrainagate, lo scandalo che ha portato alla messa in stato d’impeachment di Trump. Con il padre vicepresidente, il figlio Hunter – privo di competenza alcuna – accettò un incarico lautamente retribuito nel consiglio d’amministrazione della compagnia ucraina dell’energia Burisma. Illegalità o comportamenti inappropriati di Biden non sono stati dimostrati; ma si tratta comunque di un evidente conflitto d’interessi, gestito con leggerezza e superficialità, sul quale Trump i repubblicani si sono gettati con feroce determinazione, attivando una macchina del fango la cui efficacia conosciamo bene e della quale abbiamo ancora visto poco o nulla. La maggioranza repubblicana al Senato preannuncia future audizioni, i sondaggi ci dicono che una netta maggioranza degli americani ritiene inappropriato il comportamento tenuto a suo tempo da Biden e i media vicini a Trump, Fox su tutti, affilano le armi per una lunga campagna denigratoria.

Biden sarà in grado di reggerla? È questa, all’apparenza, la sua seconda grande fragilità. La campagna delle primarie ha mostrato un candidato chiaramente affaticato, spesso non lucido e incoerente nei suoi interventi. Il suo primo crollo nei sondaggi e nel fundraising seguì alcuni disastrosi dibattiti televisivi, durante i quali fu sostanzialmente risparmiato dagli altri candidati (con l’eccezione, in un caso, di Julian Castro), anche perché attaccare frontalmente Biden sarebbe stato come attaccare Obama. Questo lusso, nella sfida con Trump, Biden non lo avrà; e non abbiamo certezza alcuna sulla sua effettiva capacità di rispondere e di farvi fronte.

 

Immagine: Joe Biden a New York, Stati Uniti  (7 gennaio 2020). Crediti: Ron Adar / Shutterstock.com

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