Non è più come all’inizio del millennio, quando la ritrovata effervescenza etnica, culturale e politica della minoranza india aveva trainato la maggioranza meticcia all’impegno attivo per il riscatto da una crisi generale più dirompente d’un terremoto. Oggi le molte promesse mancate e le altrettante speranze deluse alimentano scetticismo e rassegnazione tra i quasi 18 milioni di abitanti, due terzi dei quali domenica prossima, 7 febbraio, sono chiamati a votare per l’elezione del nuovo presidente della Repubblica. Con ancora negli occhi le immagini dei morti abbandonati davanti alle case nell’ondata più feroce della pandemia di Coronavirus.

Nel Paese ridotto allora in coma dalla bancarotta del “decennio nero”, culminato nella destituzione di Abdalá Bucaram per “incapacità mentale” (ed etico-morale), quella fu una mobilitazione storica. Preparata in centinaia di assemblee di villaggio e marce di moltitudini che confluivano su Quito, occupando la capitale per giorni e giorni. Era un festival di dibattiti, cori quechua e aymara, concerti di quena_s_, corsi intensivi di alimentazione e pronto soccorso sanitario, con uomini che preparavano pasti comuni e donne che allattavano neonati propri e altrui lungo le strade e nelle piazze della città coloniale.

Non sorprende, dunque, che i sondaggi registrino tanti indecisi quanto la somma delle preferenze espresse per i diversi candidati, una quindicina in totale. Solo tre, però, si distaccano dagli altri e si vedono attribuire qualche possibilità concreta di elezione. Uno di essi, il terzo in graduatoria, è Yaku Pérez, espressione del movimento indigeno, che a conferma del suo scarso coinvolgimento appare molto distaccato dai primi due. In testa con un terzo delle dichiarazioni di voto c’è Andrés Arauz, populista di sinistra, sostenuto dall’ex presidente Rafael Correa, costretto all’esilio dalle incriminazioni per malversazione che lo perseguono dopo un primo periodo di riconosciuto buon governo.

A non incolmabile distanza, lo segue l’esponente delle élites neoliberiste, Guillermo Lasso, un banchiere chiamato in causa nelle speculazioni del “decennio nero”, che tra il 1996 e il 2002, con le presidenze di Bucaram e Jamil Mahuad, trascinarono l’Ecuador in uno tsunami finanziario che mandò in coma l’economia nazionale, lasciando mano libera a vari avventurieri locali e latinoamericani che grazie a trasparenti complicità riuscirono ad accumulare ingenti fortune in banche off-shore. Divenuti soci di potenti hedge Fund, quegli stessi personaggi imperversano tutt’ora sui mercati finanziari tra Europa, Stati Uniti e America Latina.

Le storiche difficoltà dell’Ecuador (l’integrazione nazionale mai portata a compimento, l’assenza di infrastrutture adeguate, l’arretratezza della limitatissima industrializzazione, l’insufficiente valore aggiunto dell’export che condiziona l’intera economia nazionale), si sono di nuovo acuite negli ultimi anni a causa della caduta dei prezzi internazionali del petrolio. Fattore non secondario nel fallimento del governo di Lenín Moreno, giunto alla presidenza come erede del predecessore Rafael Correa del quale è diventato poi il più acerrimo nemico. Così che oggi la sfida lo esclude personalmente dalla competizione, riproponendo un populismo sociale ma clientelare contro il vecchio establishment.

Mancano le condizioni materiali per l’ammodernamento di cui il Paese avrebbe drammatico bisogno. E quelle per una più equa redistribuzione delle sue ricchezze (insufficienti ma comunque tutt’altro che trascurabili), in modo da incrementare il mercato interno fino a farne un fattore di sviluppo implicano tempi lunghi, non facili da rendere compatibili con quelli sempre più rapidi dell’economia subcontinentale, oltre che con l’immediatezza dei bisogni sociali. Nei candidati prevale così la demagogia, nella speranza di catturare i favori degli elettori; disposti a loro volta a credere nell’improbabile e perfino nell’impossibile pur di sperare in un qualche concreto beneficio.

Arauz promette 1.000 dollari a famiglia per promuovere lo spirito d’impresa. Pur sapendo bene che i fondi da cui dice di volerli prendere sono da tempo depositati all’estero a garanzia dell’economia dollarizzata. Lasso, che imprenditore lo è già, assicura invece la pronta non che strabiliante creazione di 2 milioni di posti di lavoro, in un’economia in cui il lavoro nero è il doppio di quello formale e gli investimenti per un suo così massiccio ampliamento notoriamente non ci sono. Più che comprensibile il disincanto che serpeggia tra gli elettori. E più che probabile la necessità di un secondo turno elettorale a 60 giorni dal primo, per eleggere il nuovo capo dello Stato.

L’articolo è stato scritto per il blog di Livio Zanotti (Ildiavolononmuoremai.it)

Immagine: Quito, Ecuador. Crediti: julius fekete / Shutterstock.com

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