Nelle elezioni di domenica 14 febbraio per il rinnovo del Parlamento della Catalogna, comunità autonoma della Spagna, attraversata da forti tensioni separatiste, il Partito socialista catalano (PSC, Partit dels Socialistes de Catalunya) ha ottenuto un buon risultato, ed è stato il partito più votato con il 23% dei voti e 33 seggi. È difficile però che il PSC, formazione locale legata al Partito socialista operaio spagnolo (PSOE, Partido Socialista Obrero Español) del primo ministro Pedro Sánchez e fortemente contraria all’indipendenza, possa avere un ruolo nel governo della Catalogna; la maggioranza rimane agli indipendentisti, che hanno iniziato a trattare fra di loro per costruire un nuovo governo.

Il successo dei socialisti, che nel 2017 avevano raccolto soltanto il 13% dei voti, è legato, secondo la maggior parte degli osservatori, alla popolarità del loro candidato alla presidenza, Salvador Illa, che in quanto ministro della Salute nel governo centrale ha avuto una grande visibilità nel periodo della pandemia; da quando la sua candidatura è stata annunciata, il 30 dicembre 2020, e soprattutto dopo sue dimissioni da ministro il 26 gennaio e il suo ulteriore impegno nella campagna elettorale, i sondaggi hanno sempre più indicato come probabile il successo dei socialisti. La strategia elettorale di Illa si è basata non sulla demonizzazione dell’indipendentismo ma sulla sua relativizzazione, mettendo al centro altri temi come il contrasto alla pandemia e la crisi economica. Una scelta efficace che non ha impedito la vittoria degli indipendentisti, che erano presenti con tre liste di diverso orientamento politico. Sinistra repubblicana della Catalogna (ERC, Esquerra Republicana de Catalunya), di centrosinistra, ha ottenuto il 21,3% dei voti e 33 seggi, uno in più rispetto al 2017 e gli stessi conquistati dai socialisti, che sono stati penalizzati dal fatto che la loro roccaforte è a

dove il rapporto fra seggi da attribuire e popolazione è più sfavorevole. Insieme per la Catalogna (JuntsXCat, Junts per Catalunya), formazione di centrodestra guidata dallo storico leader indipendentista Carles Puigdemont, attualmente in esilio in Belgio, ha ottenuto il 20% dei voti e 32 seggi, due in meno del 2017. Candidatura popolare unita (CUP, Candidatura d’Unitat Popular), di estrema sinistra, con il 6,6% dei voti ha ottenuto 9 seggi, cinque in più rispetto al 2017; durante la scorsa legislatura la CUP aveva dato il suo appoggio esterno al governo. L’eventuale coalizione tra queste tre formazioni indipendentiste (ERC, JuntsXCat e CUP) può contare su 74 seggi su 135; le trattative non saranno facili, perché il rapporto fra Junts ed ERC è stato piuttosto problematico negli ultimi anni. D’altra parte, gli avversari del nazionalismo catalano, anche sommando posizioni inconciliabili (l’estrema destra di Vox è il quarto partito e ha ottenuto 11 seggi), ne raccolgono soltanto 61. La strategia esplicita del PSC è quella di spaccare il fronte indipendentista creando in Catalogna un governo di sinistra basato sull’alleanza con l’ERC e con Catalunya en comú podem, vicino al nazionale Podemos, che ha ottenuto 8 seggi. Difficilmente però questa ipotesi si realizzerà. Anche il voto del 2021, pur con le sue contraddizioni e la sua alta percentuale di astensione, dimostra che la questione dell’indipendenza non può essere aggirata e non si può ignorare che i partiti che rappresentano una possibile maggioranza hanno i loro leader agli arresti o in esilio. Il nodo dell’indipendenza, anche dopo la tempesta del 2017, resta al centro del futuro della Catalogna: sembra però difficile immaginare nell’attuale contesto una rinnovata radicalizzazione dello scontro.

Immagine: Manifesto di propaganda elettorale del candidato del Partito socialista Salvador Illa, Centelles, Barcellona, Spagna (7 febbraio 2021). Crediti: Antonio Salido Contreras / Shutterstock.com

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