Il 24 dicembre prossimo dovrebbero svolgersi le tanto agognate elezioni presidenziali in Libia. Purtroppo, nonostante manchino meno di 20 giorni alla fatidica data, il condizionale resta ancora d’obbligo. Sono molti, infatti, gli ostacoli che rischiano di far saltare le votazioni.

In primo luogo, persiste ancora un generale disaccordo sulla legge elettorale, approvata dal Parlamento di Tobruk e respinta dal Consiglio di Stato di Tripoli, tanto che la Commissione elettorale la scorsa settimana aveva ventilato la possibilità che, nelle circostanze attuali, la cosa migliore sarebbe quella di ritardare il voto. Anche se la comunità internazionale continua a sostenere il percorso verso le elezioni, rifiutando l’idea di un rinvio, in Libia non si è mai arrivati a un vero accordo né sulla base legale per tenere le consultazioni presidenziali e parlamentari né sulle tempistiche. Allo stato attuale, le presidenziali si dovrebbero svolgere il 24 dicembre, mentre le parlamentari 52 giorni dopo, insieme al ballottaggio per la scelta definitiva del presidente. 52 giorni in un contesto destabilizzato come quello libico sono un’eternità e le cose in questo arco di tempo potrebbero cambiare, magari con una escalation di violenze da parte di alcuni gruppi vicini ai candidati perdenti. D’altra parte, era davvero difficile ipotizzare che in pochi mesi la Libia sarebbe stata in grado, vista l’estrema frammentazione del quadro interno, di realizzare una legge elettorale. Potrebbe essere stata questa la causa delle dimissioni dell’inviato dell’ONU in Libia Ján Kubiš**.** Un duro colpo che insinua un ulteriore dubbio sulla fattibilità delle votazioni.

In secondo luogo, a caratterizzare questo scenario già di per sé incerto si è creato quello che potremmo definire il “caos dei candidati” e soprattutto dei “nomi che scottano”. La Corte d’appello di Sebha ha deciso solo recentemente di riammettere la candidatura di Saif al-Islam Gheddafi dopo la decisione dell’Alta Commissione elettorale nazionale di respingerla. Il tribunale è riuscito a emettere la sentenza dopo più di una settimana di tensioni nella zona dove si erano raccolte milizie armate fino ai denti, alcune vicine all’ex generale Khalifa Haftar, altro discusso candidato, per impedire ai giudici di entrare e decidere sull’appello. Solo pochi giorni fa un terzo tribunale libico ha escluso dalla “corsa” Haftar, accusandolo di crimini di guerra. Il 1° dicembre un altro tribunale di Tripoli ha respinto due ricorsi presentati per impedire la candidatura del primo ministro del Governo di unità nazionale promosso dall’ONU, Abdul Hamid Dbeibah, che resta in corsa nonostante, formalmente, non abbia i requisiti previsti dalla legge sulle presidenziali che preclude la possibilità di concorrere alle elezioni a chiunque abbia ricoperto cariche prima del 24 dicembre. La questione si fa ancora più intricata alla luce del fatto che il nodo, al momento, come già ricordato, è proprio l’assenza di una legge elettorale vera e propria. Il premier italiano Mario Draghi, durante la conferenza di Parigi dello scorso novembre, aveva insistito affinché il Parlamento libico votasse rapidamente una norma chiara per il percorso elettorale, nel tentativo di evitare situazioni di caos dopo la prima tornata di voto. La Francia e altre potenze si erano, invece, dimostrate più favorevoli a votare comunque, anche senza una legge definitiva. Questo ha comportato l’impossibilità di escludere chiunque dalla candidatura, con il risultato che, ad oggi, sono quasi 100 i candidati. Tra questi svariati ex leader di milizie, uomini d’affari accusati di corruzione, ex membri dell’élite ai tempi del regime. Esempi che ci dimostrano come la semplice scelta delle candidature stia creando una serie di tensioni che potrebbero esplodere ancor prima delle votazioni o, magari, qualora vi fossero, subito dopo. La domanda è: come saranno recepiti i risultati dagli sconfitti? Le varie parti in competizione accetteranno di buon grado la sconfitta? Non dimentichiamoci che già nel 2014 il casus belli della guerra civile fu proprio il risultato elettorale non riconosciuto.

C’è poi la spinosa questione degli attori stranieri ancora presenti “con gli scarponi sul terreno”, in particolare la Russia e la Turchia, con quest’ultima che ricopre un ruolo fondamentale nell’Ovest del Paese. Anche in questo caso, la domanda è: quale potrebbe essere la loro reazione al risultato elettorale? Ankara e le milizie ad essa affiliate accetterebbero la vittoria di un candidato dell’Est? E viceversa le potenze straniere che hanno interessi nell’Est accetterebbero la vittoria di un candidato vicino alla Fratellanza musulmana dell’Ovest?

Intanto in Libia sono quasi tre milioni i cittadini registrati per partecipare alle votazioni nella speranza di un futuro migliore, ma, come ci ricorda il regista libico Khalifa Abo Khraisse, inizia a serpeggiare il malcontento. Folle di cittadini molto arrabbiati hanno già fatto chiudere gli uffici elettorali in più di otto città per esprimere la loro opposizione alla possibilità «che ricercati dalla giustizia o che personaggi responsabili della morte o della fuga dal Paese dei libici possano candidarsi alle elezioni […] Altri stanno cominciando a diffondere il dubbio riguardo presunte compravendite di schede elettorali».

In questo contesto, le parole pronunciate dall’alto rappresentante dell’Unione Europea per gli Affari esteri, Josep Borrell, durante la conferenza Med-Dialogues ‒ svoltasi il 1° dicembre a Roma ‒, secondo le quali le elezioni porterebbero comunque a una legittimazione per il Paese rischiano di scontrarsi con una realtà ben diversa. Le votazioni potrebbero divenire fonte di problemi e non di soluzioni per la Libia e per i libici.

Immagine: Bandiere libiche sventolano sulla capitale Tripoli, Libia (14 febbraio 2021). Crediti: Hussein Eddeb / Shutterstock.com

© Istituto della Enciclopedia Italiana - Riproduzione riservata

Argomenti

#ONU#elezioni#Libia