Il 17 luglio del 2000 in Siria saliva al potere Bashar al Assad, succeduto al padre Hafez dopo la morte di quest’ultimo a 69 anni. Violando per un margine di qualche mese la legge per cui il presidente siriano doveva avere almeno 35 anni, Bashar “ereditò” la presidenza dal padre, riuscendo a scalzare importanti concorrenti come il potente zio Rifaat al Assad. A distanza di vent’anni quasi esatti, il 19 luglio 2020, in Siria si sono tenute le elezioni legislative per rinnovare il parlamento. È la terza volta da quando – a partire dal 2011 – il paese mediorientale è martoriato dalla peggior guerra civile della storia recente.

La Siria di oggi è molto diversa rispetto a quella che a inizio secolo vide il giovane Bashar prendere in mano le redini del paese. Le ultime elezioni per rinnovare l’assemblea parlamentare siriana, però, offrono buoni spunti per tentare un bilancio, inevitabilmente sanguinoso, del ventennio siriano sotto la guida di Bashar.

Con 2.100 candidati a contendersi i 250 seggi del parlamento, 15 collegi e 7.400 sezioni, le elezioni legislative si sono concluse senza troppe sorprese: il Baath, storico partito nazionalista e socialista di cui lo stesso Assad è leader, ha ottenuto assieme ai partiti alleati la maggioranza parlamentare, aggiudicandosi 177 dei 250 seggi.

Il dato più interessante, in Siria come in tutti i paesi retti da governi autoritari, riguarda sicuramente la percentuale di affluenza alle urne. Tenere elezioni legislative in un paese sinistrato da nove anni di guerra, per il regime è innanzitutto un tentativo di legittimazione interna e di normalizzazione a livello internazionale. Per essere legittimato, però, il sistema di potere ha bisogno di un suffragio il più possibile ampio e di una partecipazione al voto ben nutrita. Pertanto, sebbene si sia votato in più aree rispetto alla precedente tornata elettorale, l’affluenza alle legislative del 19 luglio è stata molto bassa. Rimandate due volte a causa della pandemia di coronavirus, le ultime elezioni hanno coinvolto anche aree come al Hasakah, parti di Idlib e al Raqqa che nel 2016 – data della tornata precedente – erano fuori dal controllo di Damasco. Allora, però, l'affluenza alle urne si era attestata al 57% degli aventi diritto, mentre questa volta è crollata al 33,17%, secondo i dati ufficiali della Commissione elettorale riportati dall’agenzia stampa di Stato.

Il Baath, partito di cui in Iraq è stato espressione Saddam Hussein, ha dominato tutti gli appuntamenti elettorali della Siria contemporanea, comprese le presidenziali del 2014 – le prime in forma pluripartitica durante il dominio degli Assad – in cui partito nazionalista e alleati raggiunsero l’88,7% dei consensi. Gli eletti che siederanno tra gli scranni dell’assemblea sono uomini d'affari, maggiorenti e signori della guerra facenti parte della piramide di potere che costituisce il regime di Assad.

La sconfitta di Assad nella sfida per l’affluenza è l’emblema di un paese stanco, distrutto dalla guerra, alle prese con il Covid e in una crisi economica galoppante. Una congiuntura negativa aggravata dall’approvazione recente del Caesar Syria Civilian Protection Act, il nuovo pacchetto di sanzioni con cui gli Stati Uniti hanno colpito le interessenze di Assad e di uomini a lui legati nella struttura di regime. A questo si aggiunge il mezzo milione di morti accertati dalle Nazioni Unite (con stime ferme al 2014), i 10 milionidi siriani - metà della popolazione –  che vivono come profughi interni o come rifugiati all’estero a causa del conflitto. Se si considera, poi, che in Siria ci sono aree che ancora sfuggono al controllo centrale come il nord-est, controllato dalle autonomie curdo-arabe e l’area di Idlib (dominata dalla Turchia e da gruppi ribelli filo-Ankara), ci si rende conto che la parvenza di normalità che le elezioni legislative dovevano dare alla vita del paese si è rivelata una pura illusione.

Non era questo, probabilmente, che i siriani di vent’anni fa si aspettavano, quando dopo la morte di Hafez - capo di Stato duro, violento, sterminatore di Fratelli Musulmani e non solo – videro salire al potere il giovane Bashar. Secondogenito di Hafez e di Anisa Makhlouf – un cognome piuttosto importante quando si parla di Siria – Bashar aveva studiato oftalmologia in Europa e non era destinato alla successione. Questa incombenza ricadde su di lui solo dopo la morte del fratello maggiore Basil, scomparso a seguito di un misterioso incidente stradale. Quello che seguì fu un periodo di speranza ed entusiasmo, rimasto nella memoria come “Primavera di Damasco”. Il dibattito politico, l’associazionismo e le istanze riformiste – dopo decenni di desertificazione della vita politica – venivano non solo tollerati, ma anche incoraggiati dalle autorità. Lo stesso Bashar, assieme alla moglie Asma, partecipavadi tanto in tanto alle assemblee, lasciando intravedere a tutti la possibilità di una apertura democratica.

Com’è noto, soprattutto a partire dal 2011, la storia è andata diversamente. Le manifestazioni di piazza nel contesto delle cosiddette “primavere arabe”, la repressione e la guerra civile diventata guerra per procura hanno portato il paese al collasso. Alle legislative del 19 luglio 2020, il presidente siriano e sua moglie sono stati immortalati ai seggi, vestiti di tutto punto, mentre inseriscono nell’urna le loro schede elettorali. È l’immagine di una normalità illusoria, volutamente mediatica, di un paese le cui ferite fanno fatica a rimarginarsi.

Immagine: Al-Rakka / Siria - 18 dicembre 2017: Strade dell'ex capitale dell'ISIS. Crediti immagine: Tomas Davidov / Shutterstock.com

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