22 luglio 2022

Energia e instabilità politica in Libia

La Libia è nuovamente attraversata da tensioni e sconvolgimenti in campo politico e sociale. All’inizio di luglio, infatti, il Paese nordafricano è stato teatro di una nuova ondata di manifestazioni in diverse località. Dalla capitale Tripoli a Sebha, nella regione meridionale del Fezzan, passando per Bengasi: centinaia di persone sono scese in strada per manifestare il loro dissenso. A Tobruk, sede della Camera dei rappresentanti (unico organismo legislativo eletto nel frastagliato panorama istituzionale libico), i dimostranti hanno persino appiccato il fuoco e dato il via a episodi di razzia e saccheggio. Dietro il malcontento ci sono ragioni politiche, economiche e sociali. Ogni manifestazione, volendo adottare una prospettiva analitica, rappresenta un fenomeno a sé. Uno dei leitmotiv dell’ondata di dissenso è stata sicuramente la crisi nel settore dell’energia elettrica. La Libia, come evidenziato da diversi analisti, si è trovata nel paradosso di dover gestire carenze nel fabbisogno energetico interno – con lunghi blackout in diverse aree del Paese – pur essendo uno degli Stati più ricchi al mondo di gas e petrolio. Le riserve accertate di greggio della Libia, infatti, sono le più imponenti di tutta l’Africa e tra le prime a livello globale. Questa situazione ha portato le autorità libiche a considerare la possibilità di tagliare le esportazioni – soprattutto di gas – verso alcuni partner internazionali per soddisfare le necessità domestiche. Tra questi c’è anche l’Italia, che tuttavia importa dalla Libia una quota che oscilla tra il 2% e il 4% del suo fabbisogno. Le carenze sono dovute a periodiche interruzioni nell’estrazione e nel trasporto di idrocarburi, che spesso si verificano quando le infrastrutture passano dal controllo di un gruppo armato a un altro.

Il dossier energia si intreccia inevitabilmente con la frammentazione e l’instabilità politica, entrambe cifre distintive della Libia dopo la caduta del colonnello Muammar Gheddafi. Secondo una definizione di grande successo tra gli studiosi dell’area, il regime della Jamahiriya aveva sostanzialmente ribaltato il principio della democrazia liberale del “No taxation without representation”, operazione possibile in uno di quelli Stati che vengono definiti rentier. Si tratta di quei Paesi la cui economia dipende in larghissima maggioranza dall’export di un qualche bene. Gli idrocarburi, nel caso della Libia. L’economia del Paese arabo è basata in larga parte sugli introiti e sulla redistribuzione della rendita petrolifera, che costituisce il 95% delle entrate. Gheddafi aveva sostanzialmente accentrato tutto il potere politico e decisionale nelle mani del regime ed esautorato ogni organismo elettivo (representation), impegnandosi in cambio a distribuire le rendite petrolifere e ad utilizzarle per fornire servizi e welfare gratuiti (taxation).

Con la caduta del regime, numerosi potentati, gruppi tribali e consorterie hanno guadagnato una propria fetta di potere. Una situazione, che si riscontra ancora oggi, in cui sembra quanto mai difficile ripristinare il monopolio della violenza e della gestione nelle mani di uno Stato centralizzato, forte e coeso. Dopo anni di bipolarismo tra il governo di Tripoli – appoggiato dalle Nazioni Unite – e le autorità della Cirenaica fra cui il generale Khalifa Haftar, oggi la situazione risulta – se possibile – ancora più complessa. Da alcuni mesi, infatti, convivono in Libia due governi paralleli. Il primo è il Governo di unità nazionale libico (GUN), ubicato a Tripoli e guidato dall’ex imprenditore Abdulhamid Dabaibah; il secondo – incaricato a marzo scorso dal Parlamento di Tobruk – capeggiato da Fathi Bashagha (ex ministro dell’Interno e rappresentante di spicco della città-Stato di Misurata).

Il governo Dabaibah aveva il compito di traghettare il Paese verso le elezioni legislative e presidenziali che si sarebbero dovute celebrare a dicembre 2021. Questo, tuttavia, non è avvenuto e Dabaibah ha seccamente rifiutato di farsi da parte anche dopo la nomina di Bashagha da parte della Camera dei rappresentanti di Tobruk. A questo panorama politico già estremamente complesso si aggiungono attori come il già citato Haftar, che cerca in tutti i modi di influenzare le dinamiche politiche pur non ricoprendo alcun incarico istituzionale. Periodicamente ritorna alla ribalta il nome di Saif Al-Islam Gheddafi, figlio del defunto rais, che tenta di costruirsi un ruolo nel futuro politico libico, pur gravando su di lui un mandato di cattura internazionale spiccato dalla Corte penale dell’Aja nel 2011 per violazioni dei diritti umani.

L’ultima prova dell’intreccio sempre più aggrovigliato tra energia è in politica si è avuta il 12 luglio, con la sostituzione del presidente dalla National Oil Company (NOC). Farhat bin Qadara, ex governatore della Banca centrale della Libia durante il regime Gheddafi, ha preso il posto di Mustafa Sanallah, che guidava la compagnia sin dal 2015. Si è trattato di un’operazione di concerto politico, volta a favorire anche un miglioramento dei rapporti tra il GNU e i gruppi vicini ad Haftar. Bin Qadara, a una settimana dall’inizio del suo incarico, ha annunciato la ripresa delle estrazioni di petrolio in tutti i pozzi del Paese, ma la situazione resta comunque tesa. Il sindaco del comune di Ubari, località nell’estremo Sud della Libia, ha detto al quotidiano Al Hadath che quella in atto resta una «situazione esplosiva», a causa dell’aggravarsi della crisi dei carburanti e per l’assenza di un governo stabile e in grado di controllare anche le zone più remote del Paese nordafricano.

 

Immagine: Una stazione petrolifera in Libia. Crediti: Said Zr / Shutterstock.com

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