28 marzo 2018

Giochi tra potenze nella penisola arabica

La batteria di missili balistici lanciati ieri l’altro su Riyad e altre quattro città dell’Arabia Saudita ha ucciso una persona e la già moribonda ipotesi che la guerra nello Yemen possa ridimensionarsi dopo tre anni di tormento. Il conto già troppo sanguinoso di decine di migliaia di morti, feriti e di milioni di persone in bisogno d’aiuto resta aperto e tutti lo pagheranno, chi più, chi meno. I missili degli Houthi yemeniti sono giunti a colpire a distanza con esiti mortali, volando ancora una volta per un migliaio di chilometri. Ma stavolta è un salto di qualità verso quella fossa comune che può riempirsi ancor più di cadaveri nel tempo che verrà, com’è accaduto in Siria.

Come l’intera architettura di sicurezza nella penisola arabica, la difesa antimissilistica saudita non è uno scudo immortale bensì un dispositivo che sotto tensione continua è destinato a cedere in qualche punto, per fato o fallimento, prima o poi. L’ora è giunta ieri l’altro, se la vita umana significa ancora qualcosa. La barriera strategica ha ceduto e l’ombra di morte stesa dalla guerra in Yemen ha oltrepassato le linee degli scomposti fronti militari sul terreno dilaniato. D’altronde ormai li sorvola da tempo con cadenza sempre più puntuale e precisa, librandosi a cavallo di missili che volano nello stesso cielo dal quale piovono le altre bombe, quelle sistematicamente sganciate dai velivoli dell’alleanza «saudita» sulle città yemenite controllate dagli Houthi. Il loro ultimo attacco missilistico raggiunge però un obiettivo sempre strategico per chi combatte sul proprio terreno con adeguato sostegno esterno: portare la guerra vicino a chi invece vuole tenerla lontana, accorciare la distanza tra vita e morte che si misura anche con la paura di essere colpiti. Anche in questo fatto si misura l’interesse che salda i combattenti sul terreno a quello dell’Iran, il convitato di pietra di una guerra che solca anche le acque del Golfo Persico.

A ben vedere quella distanza è però per certi versi ormai pura convenzione geometrica perché la guerra yemenita è giunta quasi ovunque. Nel nuovissimo memoriale di Wahat Al Karama, ad Abu Dhabi, il numero dei caduti emiratini combattenti coi sauditi e alleati nella guerra in Yemen equivale ormai a quello di tutti i caduti per la patria dal 1971 al 2015. È un fatto già storico che colpisce quanto il ritmo presente, sempre più regolare, con cui giungono negli Emirati bare di altri «martiri», altri caduti su quel fronte. La guerra dello Yemen non è un fatto locale, non lo è mai stata. È la metafora mortifera della penisola arabica d’oggi, la ferita sanguinante su un corpo lacerato da conflitti politici in cui la forza prevale sulla diplomazia.  

Il blocco del Qatar è ormai al decimo mese e ha disgregato il magistrale Consiglio di cooperazione del Golfo. Il suo perdurare aggrava la crisi politica generale e gli attriti nello spazio aereo internazionale che si moltiplicano, sempre più rischiosi, ne sono un semplice indicatore. Il quadro è banalmente nero, l’equilibrio precario e doloroso. Tutti gli sforzi di mediazione di Oman e Kuwait per allentare i nodi del conflitto diretto sono stati vanificati. Le potenze esterne lucrano sulla disgregazione e, con la loro condotta, la alimentano ad arte, quell’arte celebre che nella divisione altrui ritaglia vantaggi propri.

I regnanti arabi oggi hanno forse ancora visioni comuni ma prospettive sempre più divergenti sul presente e sul futuro. Questa divaricazione produce un effetto sui giochi di potenza e il mazzo di carte sul tavolo strategico si rimescola nell’incertezza prodotta da un mazziere interessato e vari giocatori d’azzardo. È perciò interessante notare come proprio ora l’Arabia Saudita abbia aperto per la prima volta nella storia il proprio spazio aereo a un volo diretto in Israele. Qualcuno crede che anche questo sia un segno dei tempi di crisi profonda tra i regnanti della penisola araba. Di certo è un sintomo dell’urgenza percepita di bilanciare l’Iran e mantenere intatto il rapporto privilegiato con gli Stati Uniti, allineandosi coi suoi alleati anche se dichiarati acerrimi nemici. Il fatto che la potenza americana alloggi la propria flotta «araba» nell’odiato Qatar, paria tra i regnanti arabi ma partner vezzeggiato dagli occidentali, può destare perplessità solo tra chi crede che davvero esistano amici e nemici «naturali». Amicizia e inimicizia non si identificano tramite la morfologia ma al massimo con la filosofia. Senza di questa amici e nemici si confondono e scompongo, come nella penisola arabica.

Crediti immagine: Attribution 2.0 Generic (CC BY 2.0). Autore: Przemek Pietrak


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