Ora che la carovana del Giro d’Italia è tornata nella penisola, Israele può fregiarsi della riuscita di un’operazione storica sotto l’aspetto dell’immagine, perché le prime tre tappe dell’edizione 2018 della corsa rosa – disputate fra il 4 e il 6 maggio a Gerusalemme, da Haifa a Tel Aviv e tra Beer Sheva a Eliat – hanno rappresentato per lo Stato del Vicino Oriente esattamente ciò che il governo di Benjamin Netanyahu si attendeva da una vetrina di questo tipo: un’occasione straordinariamente politica capace, all’atto pratico, di anestetizzare attraverso il dato sportivo l’aspetto simbolico di una narrazione, quella nazionalista israeliana, ottenuta sul più fortemente sensibile dei terreni neutrali, appunto lo sport.

Già lo scorso novembre, alla presentazione del percorso, il tentativo di affrancare lo sport dalla sua portata politica aveva generato l’evidenza opposta. Allora l’organizzatore, RCS Sport, aveva pubblicato il materiale tecnico ufficiale della corsa riferendo della partenza a Gerusalemme Ovest, aspetto che aveva causato le immediate contestazioni dei ministri israeliani Miri Regev (Sport e Cultura) e Yariv Levin (Turismo) – entrambi del Likud – che minacciarono esplicitamente di far saltare l’accordo qualora dalle mappe del Giro la dicitura non fosse diventata solamente Gerusalemme. L’organizzazione fece retromarcia, sottolineando come la dicitura fosse «priva di alcuna valenza politica». Una replica facile, ma non in grado di celare l’imbarazzo dal momento che, in un contesto del genere, tutto può essere letto attraverso la lente della politica.

Magari non tanto da parte di RCS Sport, che aveva visto nell’operazione una proposta economica impossibile da rifiutare (l’investimento complessivo israeliano fra stanziamenti pubblici e iniziativa privata è stato di circa 25 milioni di euro), imbellettandola con l’utilizzo dell’icona di Gino Bartali – che nel 2013 fu dichiarato “Giusto tra le Nazioni” dallo Yad Vashem – quale fil rouge del Giro, quanto da parte israeliana, quella secondo la quale Gerusalemme è «capitale unita, eterna e indivisa» e che pertanto non poteva digerire il riferimento alla zona Ovest, indipendentemente da quanto stabilito dalle risoluzioni 242 e 478 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite in riferimento all’annessione dei territori orientali arabi della città e del suo status di capitale, non riconosciuto dalla quasi totalità della comunità internazionale. Un dietrofront che portò l’ambasciata palestinese in Italia a parlare esplicitamente di «ricatto» da parte di Israele.

Del resto per Israele gli ultimi sei mesi hanno significato l’innalzamento dell’asticella di una delle più irrisolvibili controversie internazionali: in termini di tempistica, l’avere ospitato la partenza del Giro d’Italia mette il carico sui propositi già avanzati a dicembre dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump, intenzionato a trasferire l’ambasciata USA da Tel Aviv proprio a Gerusalemme il 14 maggio, giorno del 70° anniversario della nascita dello Stato di Israele. Mossa paradigmatica anch’essa, considerando che il 15 maggio cadrà di conseguenza il 70° del “giorno della Nakba” – che in arabo significa “catastrofe” e che ricorda l’esodo forzato di circa 700.000 palestinesi a seguito della prima guerra arabo-israeliana, nel 1948, e dalla guerra civile precedente – e ciò significa che il maggio israeliano sarà sotto gli occhi di tutto il mondo, anche in considerazione degli scontri che a Gaza da sei settimane stanno insanguinando la Grande Marcia del Ritorno.

Tornando al Giro, in tutto questo Israele è riuscito a garantire la sicurezza delle tre tappe, aspetto non proprio scontato per un Paese che non aveva mai ospitato una manifestazione sportiva tanto complessa a livello organizzativo. E così, quasi per osmosi, è uscita di Israele una percezione di sicurezza che, unita al fascino indiscutibile del territorio attraversato dalla corsa, potrà avere ripercussioni positive anche sul settore del turismo, mentre le azioni di protesta contro quella che in tanti hanno definito una falsa partenza (a dispetto dello slogan della cronometro di Gerusalemme, “Big start”, grande partenza) non sembrano avere intaccato più di tanto la riuscita dell’operazione.

Le sezioni italiane del BDS, il movimento a guida palestinese per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni contro Israele, hanno annunciato mobilitazioni nel corso di alcune delle prossime tappe: striscioni si sono visti a Palermo, al rientro del Giro in patria, e manifestazioni sono previste a Imola, dove la corsa arriverà il 17 maggio, e nel Torinese, negli ultimi giorni del Giro.

Sui social network era partita una campagna, caratterizzata dall’hashtag #shameongiro, senza contare l’appello – caduto nel vuoto – dall’ECCP (European Coordination of Committees and Associations for Palestine) contro la partenza in Israele e la presa di posizione della piattaforma delle ONG italiane operanti nel Mediterraneo e nel Medio Oriente sull’inopportunità di quella che è stata vissuta come una legittimazione. Non a caso, quando RCS Sport comunicò l’accordo con il governo israeliano, il ministro Luca Lotti partecipò alla presentazione definendo il Giro e la sua partenza da Gerusalemme «un esempio di come lo sport possa abbattere le barriere». Eppure, e non solo col senno di poi, in questo caso lo sport è apparso più che altro lo strumento di una strategia precisa.

Crediti immagine: da Dotan Doron [CC BY-SA 4.0 (https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0)], attraverso Wikimedia Commons

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