Nonostante la sospensione a “tempo indefinito” da parte del governo di Hong Kong del contestato emendamento sull’estradizione che aveva innescato le proteste lo scorso mese di giugno, gli animi dei manifestanti non si placano e le proteste continuano. L’obiettivo è il ritiro totale della riforma dell’estradizione che consentirebbe a Pechino di perseguitare i dissidenti nell’ex colonia britannica e, in generale, di allargare ulteriormente la sua influenza nella Regione amministrativa speciale (RAS) di Hong Kong. Molti ritengono, infatti, che il governo comunista stia lentamente erodendo i diritti “speciali” garantiti agli abitanti di Hong Kong per un periodo di cinquant’anni (a partire dall’handover) dall’accordo siglato dai governi di Londra e Pechino nel dicembre 1984 (Joint Declaration of the Government of the United Kingdom of Great Britain and Northern Ireland and the Government of the People’s Republic of China on the Question of Hong Kong) sulla base della formula coniata da Deng Xiaoping “un Paese due sistemi” (yiguo liangzhi).

Non è certo la prima volta che gli abitanti di Hong Kong alzano la testa per protestare contro quelle che ritengono violazioni dei loro diritti e continue ingerenze del governo di Pechino. Quella delle ultime settimane, però, è innegabilmente la più grande manifestazione politica mai organizzata nell’ex colonia britannica dal 1997, che ha visto momenti di grande tensione, come quando il Parlamento della regione è stato preso d’assedio dai manifestanti, il 1° luglio. L’assedio è durato diverse ore e stando a quanto riportato dai media locali, dopo l’irruzione i manifestanti hanno istallato, significativamente, una bandiera dell’era coloniale britannica.

Anche nel 2014 Hong Kong era stata scossa da proteste guidate da gruppi studenteschi divisi in varie fazioni che paralizzarono l’ex colonia britannica per quasi tre mesi – il cosiddetto Occupy Central o Rivolta degli ombrelli (yunsan yundong). In quel caso, le manifestazioni erano scaturite dalla decisione del Comitato permanente del Congresso nazionale del popolo (il Parlamento cinese) di riformare il sistema elettorale di Hong Kong, inserendo una misura di “preselezione” dei candidati alla leadership di Hong Kong da parte del Partito comunista. Un ulteriore motivo della protesta era da rinvenirsi nella pubblicazione da parte del governo di Pechino di un Libro bianco (baipishu) intitolato La pratica del principio «un Paese due sistemi» nella Regione a__mministrativa speciale di Hong Kongyiguo liangzhi» zai Xianggang tebie xingzhengqu de shixian baipishu), nel quale si affermava che l’autonomia di Hong Kong dipendeva dal governo centrale, il quale poteva decidere di modificare la Basic Law (la Legge fondamentale) entrata in vigore nel 1990, come previsto dall’accordo del 1984 in qualsiasi momento lo reputasse necessario. Ad essere messo in discussione era soprattutto quell’“elevato grado di autonomia” (gaodu zizhi) concesso al territorio con la Joint Declaration.

Se è vero, come hanno sostenuto alcuni studiosi, che i semi dell’attuale crisi di Hong Kong furono piantati a Londra proprio una generazione fa, vale la pena soffermarsi brevemente sull’accordo concluso nel 1984 e sulle responsabilità dei due governi. Quest’ultimo (composto da otto articoli, tre allegati e due memorandum) prevedeva, da parte britannica, la restituzione di tutto il territorio di Hong Kong alla data del 1° luglio 1997 – data di scadenza prevista per una parte di Hong Kong ceduta in affitto nel 1898, i cosiddetti New territories, che costituiva oltre il 90% dell’intero territorio e dal quale dipendeva tutto il resto, ossia l’isola omonima, la penisola di Kowloon e l’isola di Stonecutters, cedute, al contrario, in perpetuo al governo di Londra dai trattati “ineguali” che avevano posto fine alle due Guerre dell’oppio. Da parte cinese si stabiliva, invece, che Hong Kong sarebbe stata costituita in una RAS della Repubblica Popolare Cinese, con denominazione «Hong Kong, China», in conformità con quanto stabilito dall’art. 31 della Costituzione. In altre parole, si acconsentiva che l’ex colonia conservasse il suo sistema capitalistico e liberale per un periodo di cinquant’anni, sulla base del principio “un Paese, due sistemi”, e in base ai dettami contenuti nella Legge fondamentale (cosiddetta Basic Law), che sarebbe stata emanata come una sorta di legge costituzionale della nuova RAS, da parte del Parlamento di Pechino. In particolare il comma 2 dell’art. 3 stabiliva che la RAS di Hong Kong avrebbe goduto di un “elevato grado di autonomia” sotto l’autorità del governo centrale, eccezion fatta per alcuni capitoli relativi alla politica estera e alla difesa, mentre all’art. 4 i due governi dichiaravano che durante il periodo di transizione il governo di Londra avrebbe continuato ad essere responsabile dell’amministrazione di Hong Kong con l’obiettivo di “mantenere e preservare” la sua prosperità economica e la sua stabilità sociale, laddove il governo di Pechino avesse dato il suo contributo in tal senso.

Vale la pena sottolineare il ruolo del tutto marginale giocato dal governo e dalla popolazione di Hong Kong nell’intera vicenda, nel senso che, il governo britannico e quello cinese avevano negoziato l’accordo bilateralmente, negando deliberatamente il diritto degli abitanti della colonia di prendere parte al tavolo delle trattative, i quali si videro pertanto costretti a subire l’accordo. Ma questo non dovrebbe stupire, visto e considerato che il governo britannico non era mai stato particolarmente illuminato e fu sempre orientato alla massimizzazione dei profitti della madrepatria, piuttosto che al miglioramento della situazione degli abitanti della colonia. Durante l’intera epoca coloniale, Hong Kong non aveva mai avuto alcuna voce in capitolo nelle scelte relative al proprio territorio, né aveva mai goduto di una qualche autonomia, posto che ufficialmente tutto il potere era nelle mani dei governatori designati dai sovrani britannici, che agivano in loro nome. Fino agli anni Novanta del secolo scorso l’amministrazione della colonia era, in effetti, regolata da due testi legislativi redatti dal Parlamento inglese nel 1888 – le Letters Patent e le Royal Instructions – che attribuivano ampi poteri al governatore (chief executive), personalmente nominato dalla Corona, con il compito specifico di rappresentare il governo britannico e di realizzarne le decisioni. Fu solo l’ultimo governo di Chris Patten (1992-97) a iniettare quelle poison pills tanto temute da Deng Xiaoping, promuovendo una sostanziale parziale democratizzazione, quando oramai il passaggio di Hong Kong alla Cina era stato già deciso – una mossa che lo studioso Peter Harris ha recentemente definito, in modo molto efficace, come una «democratic timing bomb».

In un’interessante intervista concessa al The Guardian, alla vigilia dei festeggiamenti per il ventesimo anniversario dell’handover, Chris Patten ha espresso un giudizio molto positivo sull’operato dei giovani attivisti coraggiosi che nel 2014 hanno combattuto per far sentire la propria voce mentre la Cina violava le sue promesse sulle libertà, e dunque il principio denghista alla base della Joint Declaration; al contempo si è soffermato sulle responsabilità del governo di Londra, il quale nonostante l’obbligo morale nei confronti dei suoi ex sudditi, nel corso degli anni ha preferito spesso e volentieri chiudere un occhio davanti alle continue violazioni delle libertà di Hong Kong e continuare a collaborare con Pechino, al fine di salvaguardare gli interessi economici del Paese.

Immagine: Migliaia di manifestanti marciano contro il controverso emendamento sull’estradizione, Hong Kong  (9 giugno 2019). Crediti: John YE / Shutterstock.com

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