Carrie Lam alla fine ha ceduto. Dopo una settimana di proteste che ha visto tornare prepotentemente alla ribalta l’ex colonia britannica, il capo dell’esecutivo di Hong Kong è arretrato, annunciando che l’approvazione della legge sulle estradizioni è sospesa sine die.

Domenica 9 giugno centinaia di migliaia di manifestanti sono scesi in strada nel centro di Hong Kong, per protestare contro un emendamento alla legge sulle estradizioni proposto a febbraio dall’amministrazione guidata da Carrie Lam. Il provvedimento è considerato da coloro che lo contestano come un’ingerenza sempre più pesante di Pechino negli affari interni della regione ad amministrazione speciale. Si è trattato della più grande manifestazione politica mai organizzata nell’ex colonia britannica dal 1997 a questa parte. È in quell’anno che Hong Kong, dopo oltre 150 anni da protettorato inglese, è ritornata alla Cina a seguito di un accordo con il Regno Unito.

Il mercoledì successivo la regione ad amministrazione speciale è poi precipitata nel caos: le dimostrazioni sono degenerate in scontri tra la polizia e i manifestanti radunati in decine di migliaia attorno al centro amministrativo della città. Le forze dell’ordine hanno disperso la folla con lacrimogeni e proiettili di gomma. Oltre 70 persone, tra dimostranti, agenti di polizia e giornalisti, sono rimaste ferite. La stampa della mainland cinese ha parlato di «disordini violenti» e ha accusato l’opposizione di aver alimentato le proteste con la complicità di «forze esterne», sottolineando che la faccenda rappresenta interamente un affare interno alla Cina.

Quanto sta accadendo in questi giorni nell’ex colonia britannica affonda le sue radici in sentimenti che gli hongkonghesi hanno maturato da tempo nei confronti della Repubblica Popolare e lascia trasparire l’avversione di questi ultimi per la presenza sempre più ingombrante di Pechino negli affari della regione.

L’emendamento alla legge sulle estradizioni al centro delle contestazioni mira a consentire il trasferimento di fuggiaschi o sospetti criminali in quelle giurisdizioni con le quali Hong Kong non ha ancora stipulato trattati di estradizione. La Regione amministrativa speciale (RAS) ha stretto trattati bilaterali di estradizione con 20 Paesi, tra cui figurano, ad esempio, gli Stati Uniti, il Regno Unito e Singapore, ma non la Cina continentale, Taiwan o Macao. L’estradizione riguarderebbe solo i reati più gravi, punibili con almeno 7 anni di reclusione. Tra i vari emendamenti proposti ve ne sono anche alcuni in materia di assistenza legale reciproca, visti con sospetto da alcuni avvocati in quanto posti in relazione con l’attuale impossibilità da parte della polizia e dei funzionari cinesi di operare sul territorio hongkonghese.

I funzionari dell’ex colonia britannica hanno proposto per la prima volta l’emendamento alla legge nel febbraio scorso, menzionando il caso di Chan Tong-kai, un ventenne di Hong Kong accusato di aver ucciso la sua fidanzata incinta durante un soggiorno a Taipei. Secondo quanto da loro sostenuto, il giovane non avrebbe potuto essere trasferito a Taiwan in mancanza di un accordo di estradizione fra i due territori. Proprio alla luce di questa circostanza, gli emendamenti sono considerati da alcuni un rimedio alle scappatoie legislative attualmente utilizzabili. Ma il capo dell’esecutivo di Hong Kong, Carrie Lam, è stata accusata dai suoi oppositori di aver agito su richiesta di Pechino, sebbene lei abbia più volte respinto le accuse rivoltele, sostenendo di non aver ricevuto alcuna istruzione dal governo centrale.

Come scrive Wang Xiangwei sulle pagine del South China Morning Post, i fatti accaduti dimostrano quanto Lam e gli alti funzionari della regione non siano riusciti a captare il sentire e gli umori degli abitanti di Hong Kong, fortemente preoccupati all’idea di poter cadere nelle maglie del sistema giudiziario della Cina continentale.

Ciò che ha alimentato maggiormente le preoccupazioni degli abitanti dell’ex colonia è la possibilità di un avvicinamento sempre più marcato della RAS al modello cinese, con la persecuzione di coloro che sono accusati di reati di opinione. In sostanza, si teme un’ulteriore distorsione della formula “Un Paese, due sistemi”, quel principio che dovrebbe garantire a Hong Kong un alto grado di autonomia fino al 2047, anno in cui il regime speciale transitorio di 50 anni, previsto successivamente alla riunificazione, avrà termine. Il provvedimento, insomma, viene visto come un pretesto per ledere l’autonomia di Hong Kong, minare l’indipendenza del sistema giudiziario locale e colpire i dissidenti politici rifugiatisi all’interno dei suoi confini, con ripercussioni fatali sulla tutela dei diritti umani.

Quali possibili scenari per il futuro? La Cina è posta dinanzi a numerose sfide sia interne che esterne, circostanza spesso sottolineata anche sui principali organi di informazione della Repubblica Popolare. Proprio per tale motivo, un concetto centrale alla base delle scelte operate dalla leadership di Zhongnanhai è quello relativo al mantenimento della stabilità. Su quest’ultima e sulla sicurezza si reggono infatti gli obiettivi di sviluppo economico di Pechino e la possibilità del Partito comunista di continuare a esercitare il suo potere. Alla luce di tali considerazioni, è molto probabile che, se le proteste dovessero protrarsi a lungo minando in qualche modo la stabilità interna, la risposta sarà dura e ferma.

Nonostante il passo indietro fatto sabato dall’esecutivo di Hong Kong, la marcia di protesta da Victoria Park fino ad Admiralty in programma per il giorno successivo è stata confermata. Stando alle cifre diffuse dagli organizzatori, 2 milioni di manifestanti sono scesi nuovamente in strada per chiedere il ritiro definitivo della legge e le dimissioni di Carrie Lam.

Immagine: Manifestazione a Hong Kong contro la legge sull’estradizione e per chiedere le dimissioni di Carrie Lam (16 giugno 2019). Crediti: Gorma K / Shutterstock.com

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