Mille miliardi d’investimenti in 10 anni per trasformare completamente l’economia europea. Ogni presidente della Commissione dell’Unione Europea (UE) vorrebbe guadagnarsi una menzione sui libri di storia grazie ad almeno un provvedimento simbolo capace di caratterizzarne il mandato. Ursula von der Leyen ha fin da subito puntato tutto sul Green deal, un Patto verde europeo fra istituzioni, Stati membri, settore pubblico e privato per trasformare radicalmente l’economia dell’Unione e rendere il continente europeo il primo a raggiungere la “neutralità climatica” entro il 2050.
Finanziamenti e nuovi strumenti
Dopo aver presentato vagamente l’impalcatura generale del Green deal lo scorso dicembre, martedì la Commissione UE ha messo sul tavolo la propria proposta per costruire il “braccio economico” del Patto verde europeo. Al suo interno c’è anche il tanto atteso Fondo per la transizione giusta ‒ o equa, a seconda delle traduzioni dall’inglese di Just transition fund, da cui l’abbreviazione JTF. Come detto, l’obiettivo è mobilitare mille miliardi d’investimenti pubblici e privati entro il 2030, per rispettare gli obiettivi europei di riduzione delle emissioni di gas serra che la Commissione vorrebbe rendere ancora più ambiziosi, passando dall’attuale taglio del 40% al 50-55% rispetto ai livelli del 1990. La cifra può sembrare spropositata, ma, secondo i calcoli effettuati dagli stessi servizi della Commissione, saranno necessari ogni anno 260 miliardi d’investimenti aggiuntivi per portare a compimento la rivoluzione verde del continente. Mille miliardi, quindi, potrebbero non essere sufficienti.
Per raggiungere questo ambizioso obiettivo, il nuovo piano finanziario presentato martedì dal commissario all’Economia Paolo Gentiloni si articolerà su tre pilastri: finanziamenti, favorire gli investimenti e dare un sostegno pratico alle autorità pubbliche. In che modo verrà fatto tutto questo nel dettaglio, però, non ci è ancora dato sapere.
Aiutare le regioni più colpite dalla transizione
Pilastro fondamentale attorno al quale si articola la strategia di riconversione dell’economia europea sarà il nuovo Meccanismo per la transizione giusta, all’interno del quale verrà creato un apposito fondo europeo. Lo strumento vuole fornire un supporto specifico ai territori ancora fortemente dipendenti dalle fonti fossili, che dovranno quindi gestire le conseguenze ambientali e sociali più complesse nei prossimi anni. Si va dalle regioni carbonifere della Polonia a quelle legate a grandi industrie che fanno un grande uso di carbone, come quelle siderurgiche.
In questo caso, l’obiettivo è di mobilitare 100 miliardi fra il 2021 e il 2027, riuscendo a combinare investimenti privati (circa 45 miliardi), grazie al piano InvestEU (successore del Piano Juncker), pubblici (25-30 miliardi), attraverso le garanzie offerte dalla Banca europea per gli investimenti, e l’utilizzo del Fondo per la transizione giusta (30-50 miliardi).
I più critici verso il nuovo strumento lamentano l’assenza d’ingenti risorse fresche da dedicare alle regioni più indietro, visto che il JTF potrebbe avere a disposizione (se sarà approvata la proposta della Commissione) appena 7,5 miliardi dal bilancio UE 2021-27. Il resto dovranno mettercelo gli Stati membri attraverso il cofinanziamento nazionale e il dirottamento di risorse europee destinate ad altri fondi strutturali: il Fondo per lo sviluppo regionale (FESR) e il Fondo sociale europeo Plus (FSE+). Il JTF rientrerà infatti sotto l’ombrello della politica di coesione e ne seguirà quindi le stesse logiche: dalla gestione condivisa fra autorità europee e nazionali-territoriali, alla richiesta di un maggiore cofinanziamento nazionale per i Paesi più ricchi.
Lo scontro sul bilancio europeo
Il JTF nasce politicamente da un’idea avanzata dall’europarlamentare polacco Jerzy Buzek, subito sostenuta e rilanciata sia dal Parlamento europeo che dal Comitato europeo delle Regioni, che riunisce a Bruxelles i rappresentanti degli enti territoriali dell’UE. L’idea alla base era quella di supportare con finanziamenti ad hoc la riconversione dell’economia di molte regioni dell’Europa orientale che è ancora basata sulle miniere di carbone, compensando così anche il pesante taglio ai fondi strutturali che queste subiranno a partire dal 2021.
Il Green deal della Commissione è infatti indissolubilmente legato ai negoziati in corso sul bilancio pluriennale dell’Unione Europea 2021-27, che per la prima volta dovrà fare i conti con il buco lasciato dall’uscita del Regno Unito dall’UE. Da mesi gli Stati si stanno scontrando per arrivare a un accordo che possa permettere di far partire le trattative con la Commissione e il Parlamento europeo, ma la battaglia fra chi chiede di tirare ulteriormente la cinghia e chi vorrebbe versare di più nelle casse dell’UE è ancora lontana dal concludersi. La proposta dell’esecutivo di aggiungere 7,5 miliardi al bilancio che stanno faticosamente tentando di negoziare i 27 Paesi sarebbe quindi sembrata proibitiva se non fosse stata accompagnata da altri elementi, apparentemente marginali, che in realtà potrebbero essere la chiave di volta per trovare l’intesa sul dossier.
La chiave di volta degli aiuti di Stato
Per cercare di trovare il favore dei governi, von der Leyen ha avuto l’astuzia di non riservare il nuovo JTF alle sole regioni carbonifere della Polonia, ma allargarlo a tutta Europa, lasciando però alle capitali il compito d’identificare ‒ in concerto con Bruxelles ‒ i territori bisognosi del sostegno economico.
Inoltre, la creazione del JTF è stata accompagnata dalla promessa di una revisione delle regole sugli aiuti di Stato entro la fine del 2021, per consentire di finanziare anche la riconversione e la bonifica di grandi aziende quando queste sono in linea con gli obiettivi del Green deal. Il fondo potrebbe così diventare una sorta di corsia preferenziale attraverso la quale usare denaro pubblico per operazioni proibite dalle norme sulla politica di coesione e la concorrenza, facendo contenti sia i Paesi dell’Est che quelli, come la Germania, contrari all’iniezione di nuove risorse nel bilancio UE, ma favorevoli al maggiore uso di denaro statale per orientare la politica industriale.
Per l’Italia questo potrebbe tradursi in un’occasione irripetibile per intervenire nell’area dell’ex Ilva, così come in decine di altri siti industriali o da bonificare, senza rischiare d’incorrere in sanzioni o indagini da parte della Commissione. Anche se, come ha ricordato il commissario Gentiloni, «questo non vuol dire che i problemi dell’Ilva saranno risolti dal Fondo per la transizione giusta».