Quando si parla di attori del Nord-Est asiatico in Africa, i riflettori sono tutti inevitabilmente puntati sulla Repubblica popolare cinese (RPC), laddove le presenze di Giappone e delle due Coree risultano a malapena percepite. In effetti, nell’ultima decade le relazioni cino**-**africane sono state oggetto di una vastissima letteratura, anche in lingua italiana, che si è concentrata sugli interessi economici del gigante asiatico in Africa, sul modus operandi di Pechino e sull’impatto economico e sociale della presenza cinese nella società africana, evidenziandone spesso e volentieri la natura rapace e di stampo neocolonialista, e contribuendo, tra le altre cose, a mettere  in ombra il ruolo giocato dagli altri attori dell’Asia nordorientale che vantano una presenza altrettanto consolidata rispetto a quella cinese e presentano interessanti similitudini (anche negli aspetti meno positivi) con essa, essendo dettate da dinamiche simili.

In tutti i casi l’interesse economico/commerciale risulta preponderante, come emerge dalla costituzione di meccanismi istituzionali per favorire la cooperazione tra le parti – la TICAD (Tokyo International Conference on African Development) dal Giappone, il FOCAC (Forum on China-Africa Cooperation) dalla Cina e il KOAFEC (Korea-Africa Economic Cooperation) dalla Corea del Sud – e, più in generale, dalla diplomazia delle risorse, portata avanti da Cina, Corea del Sud e Giappone attraverso lo strumento degli aiuti allo sviluppo; per non parlare delle lucrose attività economiche gestite dal regime di Pyŏngyang – nonostante l’isolamento e le sanzioni internazionali – fondamentali per garantirsi la sopravvivenza.

Oggigiorno la Corea del Nord commercia con circa 30 Stati dell’Africa subsahariana, vende armi, fornisce addestramento militare e assistenza per le attrezzature di epoca sovietica, ancora in uso tra diversi gruppi militari africani, ed è ben inserita nel settore delle costruzioni (dagli impianti di produzione di armi, ai palazzi presidenziali, alle enormi statue di bronzo, ai blocchi di appartamenti). Un rapporto pubblicato alla fine del 2017 da un gruppo di esperti ONU incaricato di vigilare sul rispetto delle sanzioni internazionali imposte al Paese ha rivelato come le relazioni tra Pyŏngyang e molte capitali africane continuino ad essere molto forti; non a caso, ben 11 gruppi dell’Africa subsahariana risultano indagati per la violazione delle sanzioni.

Non meno rilevante è l’interesse politico/strategico da parte di ognuno degli attori nordorientali. Pechino si è servita del teatro africano, inizialmente per proporre un modello rivoluzionario distinto e alternativo rispetto a quello sovietico; successivamente per portare avanti la politica di “una sola Cina” (yi ge Zhongguo zhengce), che implica il riconoscimento diplomatico esclusivo della RPC e non della ROC (Republic Of China, Taiwan), e per sostenere l’intera agenda politica del Paese nei vari forum multilaterali, tenuto conto dell’ampio blocco di voti espresso dal continente, anche nella prospettiva di creazione di un nuovo ordine mondiale multipolare, più equo e democratico; in tempi più vicini a noi l’Africa ha costituito un teatro prezioso dove la Cina ha potuto esercitare il proprio soft power e proiettare il suo prestigio e la sua reputazione internazionali quale “grande potenza responsabile” (fuzeren daguo), attraverso una crescente partecipazione nelle PKO (Peacekeeping Operations) impegnate nel territorio.

L’interesse iniziale della Corea del Sud per l’Africa è stato determinato dalla necessità di ottenere il riconoscimento politico come Stato per contrastare la Corea del Nord, che negli anni Sessanta e Settanta godeva di un significativo vantaggio diplomatico rispetto al Sud, essendo all’epoca una nazione più prospera, ma soprattutto per via dei preziosi legami ideologici forgiati da Pyŏngyang fin dagli anni Cinquanta attraverso la fornitura di aiuti finanziari militari ai movimenti di liberazione e al peso acquisito sul piano internazionale all’indomani del suo ingresso all’interno del Movimento dei Paesi non allineati; negli anni Duemila la strategia di Seoul mirava invece a presentarsi come un attore attivo e rispettato sulla scena internazionale e a proporsi quale “modello alternativo di sviluppo”, più sostenibile rispetto a quello cinese.

Per il Giappone, infine, l’Africa ha assunto una particolare rilevanza sia nella prospettiva (oramai quasi tramontata) di una riforma del Consiglio di sicurezza dell’ONU, volta ad includere un numero maggiore di membri permanenti sulla base di una rappresentanza geografica ed economico-politica, e nella quale risultano attivi anche molti Stati africani, sia nel rilancio in patria della politica di legittimazione delle cosiddette forze di autodifesa, che si inserisce in una politica di più vasto respiro portata avanti da Tokyo a partire dagli anni Novanta che punta alla “normalizzazione” del Paese e al progressivo abbandono del pacifismo.

Ciò detto, bisogna riconoscere che la presenzialità cinese appare difficile da contrastare, o anche solo da eguagliare. Si tratta infatti di una presenza “ingombrante” in tutti i sensi – nella quantità massiccia di lavoratori migranti al soldo delle grandi aziende di Stato, nel numero crescente degli operatori di pace, nelle magnificenti opere infrastrutturali realizzate da Pechino, per non parlare della costante partecipazione fisica dei massimi esponenti del governo cinese nel continente, alle quali viene data un’ampia copertura mediatica a livello internazionale. A partire dal 1991 – come segnale di riconoscenza per il sostegno garantito dal continente alla Cina nella difficile situazione determinatasi all’indomani dei fatti di piazza Tian’anmen – l’Africa è diventata la prima meta del ministro degli Esteri cinese all’inizio di ogni anno, e destinazione privilegiata anche per il primo ministro e lo stesso presidente cinese. In confronto, i viaggi ufficiali dei leader giapponesi e coreani nel continente impallidiscono. Basti pensare che la visita di Yoshiro Mori in Africa subsahariana, nel 2001, ha costituito una delle rare visite di un leader giapponese in Africa, laddove il tour di Shinzo Abe, all’inizio del 2014, era il primo di un leader giapponese in otto anni. Il premier Junichiro Koizumi si recò due volte in Africa durante il suo mandato (nel 2002 e nel 2006). In maniera non dissimile, i leader sudcoreani hanno compiuto visite ufficiali nel continente in maniera assai discontinua: la visita di Roh Moo-hyun, nel 2006, era la prima della Corea “democratica” dopo quella di Chun Doo-hwan, nel 1982, ed è stata seguita da quella di Lee Myun-bak, nel 2011, e di Park Geun-hye, nel 2016.

Naturalmente l’assiduità delle visite dei governanti cinesi in Africa segue una logica ben definita, che si ricollega strettamente ad alcune importanti iniziative economiche lanciate dalla RPC che vedono l’Africa “al centro”, in primis la Belt and Road Initiative (yidao yilu) che ambisce a ricostruire l’antica Via della Seta attraverso due nuove vie – una terrestre (“cintura economica della via della seta”, sichou zhilu jingji dai) e una marittima (“via della seta marittima del XXI secolo”, 21shiji haishang sichou zhilu) – che costituisce parte integrante del cosiddetto Sogno cinese (Zhongguo meng) e ambisce, tra le altre cose, a ridisegnare l’ordine mondiale.

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