Ursula von der Leyen è ufficialmente la prima donna ad aver ricevuto l’incarico di formare la Commissione europea. Tedesca, sessant’anni, figlia d’arte (il padre, Ernst è stato uno dei primissimi funzionari europei e, in tarda età, governatore della Bassa Sassonia), già ministra del Lavoro, della Famiglia e della Difesa, VdL ‒ come la chiamano in patria ‒ ha ottenuto la nomina non senza qualche batticuore. Il Parlamento europeo, per concederle la fiducia, doveva esprimere 374 voti favorevoli; ne sono arrivati 383, appena 9 sopra la quota necessaria. Pochini per una candidata che, nelle aspettative della vigilia, doveva contare su circa 400 approvazioni sicure, considerando solo i gruppi parlamentari socialista, popolare e liberal/macroniano.

Il suo predecessore, Jean-Claude Juncker, arrivò a circa 420 voti, ma cinque anni fa erano altri tempi, quasi un’era geologica considerando la volatilità politica cui ci stiamo abituando.

La dinamica di Strasburgo, tuttavia, ci consegna già alcuni dati interessanti. Prima di tutto è finita l’era della grande coalizione tra centrodestra e centrosinistra che ha governato l’Europa praticamente dalla sua fondazione. Partito socialista europeo (PSE) e Partito popolare europeo (PPE), per quanto ancora largamente maggioritari, hanno bisogno del costante supporto di altre formazioni, dei liberali (pure dopo la pennellata macroniana) sicuramente, ma pure ‒ in alcuni casi ‒ dei Verdi o, addirittura, del gruppo dei Conservatori, di cui fanno parte i Tories britannici e altri movimenti abbastanza discussi, come il partito polacco Diritto e Giustizia dei gemelli Lech e Jarosław Kaczyński. La perdita dell’autosufficienza porta con sé la definitiva parlamentarizzazione dell’Unione Europea o, meglio, un suo graduale, ma costante avvicinamento a una dialettica tra camere (Parlamento e Consiglio) e governo (la Commissione) simile a quella cui siamo abituati in Spagna, Italia o Germania (non in Francia, dove vige un maggioritario abbastanza muscolare e c’è l’elezione diretta del capo dello Stato).

Il Consiglio europeo, infatti, ha voluto a tutti i costi stroncare l’innovazione degli Spitzenkandidaten (secondo cui, in linea totalmente teorica, il candidato principale del partito più votato avrebbe dovuto ricevere l’incarico di formare la nuova Commissione), ma la prescelta ‒ che, ricordiamolo, non si è neppure presentata alle elezioni europee ‒ ha dovuto comunque cercarsi i voti uno per uno in Parlamento, proponendo un programma di lavoro che soddisfacesse ‒ almeno in parte ‒ le aspettative di una quota maggioritaria dell’Aula. Non è un caso che, nel suo discorso, la von der Leyen abbia citato il progetto per un salario minimo europeo, l’unione bancaria, la necessità di obiettivi climatici più ambiziosi e con tempi il più stretti possibile, il rispetto dello Stato di diritto. Tutti temi significativi per socialisti, liberali e Verdi, molto meno per il suo partito di riferimento, quel PPE che ‒ seppur maggioritario ‒ non ha potuto sottrarsi al confronto politico. La presidente designata si è addirittura spinta a dichiarare esplicitamente di non volere alcun voto da parte dei sovranisti ‒ di fatto escludendo Lega e Front National dai negoziati ‒ per venire incontro alle esplicite richieste del gruppo socialista.

Pare di essere in Italia, insomma, e neppure in anni recenti: la variopinta coalizione che andrà a sostenere la candidatura della ex ministra tedesca somiglia molto a quel pentapartito che gestì, tra alti e bassi, la fase terminale della prima repubblica. Nei prossimi mesi (la nuova Commissione europea andrà presentata entro ottobre), la von der Leyen dovrà negoziare con gli Stati sui nomi e sugli incarichi del suo futuro collegio, sperando che ‒ dopo l’estate ‒ il Parlamento garantisca delle audizioni senza intoppi (anche se le prospettive non sono buone, soprattutto se Italia, Ungheria e Polonia presenteranno candidati discutibili). In ogni caso, nonostante la compattezza del Consiglio europeo e il supporto di Angela Merkel, Pedro Sánchez ed Emmanuel Macron, Ursula von der Leyen sarà un presidente molto meno autonomo di Jean-Claude Juncker: un bel pezzo di lavoro legislativo (soprattutto se la Commissione darà seguito agli impegni presi su ambiente e politiche del lavoro) potrà passare solo col supporto di forze politiche come i Verdi o, addirittura, la sinistra radicale della Gauche Unitaire Européenne (GUE). Allo stesso modo, qualora la Commissione decidesse di virare organicamente a destra, von der Leyen si troverebbe al tavolo con sovranisti, nazionalisti e conservatori vari che, come peraltro annunciato in aula, non venderanno il loro sostegno a buon mercato.

Rimane in ogni caso il dato politico: Ursula von der Leyen è il primo presidente della Commissione ad essere stato eletto su una maggioranza costruita attorno alla sua persona e a un programma condiviso, non accettando supinamente un pacchetto di compromesso (politico, territoriale e diplomatico) negoziato durante la notte al Consiglio. Certo, i capi di Stato e di governo hanno difeso le loro prerogative di nomina, ma il negoziato parlamentare successivo conferma una tendenza difficile da invertire. A questo punto Ursula von der Leyen ha davanti due strade, essere l’ultima esponente del vecchio ordine o la prima, forse incerta, espressione del nuovo. Come sempre, solo i posteri sapranno dirci se sarà vera gloria.

Immagine: Ursula von der Leyen (10 luglio 2019). Crediti: Alexandros Michailidis / Shutterstock.com

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