È stato un mese di agosto estremamente difficile quello vissuto da Donald Trump.

Sull’onda lunga di un primo semestre presidenziale denso di ostacoli, neppure l’estate sembra aver concesso una tregua politica al discusso inquilino della Casa bianca, che tra i problemi interni all’amministrazione, le difficoltà nel portare avanti l’agenda e la prepotente riemersione di profonde ferite erroneamente ritenute cicatrizzate, ha vissuto settimane convulse.

Già a luglio, il presidente aveva dovuto incassare la delusione dello stop del Senato all’abrogazione di parti importanti di Obamacare, uno dei cavalli di battaglia della campagna presidenziale. Sul punto, Trump – che ovviamente non ha risparmiato tweet al vetriolo contro quei senatori che hanno bloccato l’iniziativa – ha per il momento rilanciato, invitando ad attendere che  Obamacare imploda così da procedere poi alla definizione di un nuovo sistema che lo superi. Quanto invece alla composizione del suo staff, il 21 luglio il presidente ha dovuto prendere atto delle dimissioni del portavoce Sean Spicer dopo la nomina a capo della comunicazione di Anthony Scaramucci, rimasto poi in carica soltanto 11 giorni. Un altro, importante avvicendamento si è poi avuto nella posizione di capo di gabinetto della Casa bianca, dove Reince Priebus ha rassegnato le sue dimissioni venendo sostituito – il 31 luglio – dal segretario alla sicurezza nazionale John Kelly.

È stato però il mese di agosto a riservare a Trump una delle sfide politiche e sociali più complesse di questo primo scampolo di presidenza: pomo della discordia, la rimozione della statua del generale sudista Robert E. Lee dall’Emancipation park – nuovo nome di quello che era noto proprio come Lee park – a Charlottesville in Virginia. Si è dunque arrivati, il 12 agosto, alla manifestazione Unite the right, preceduta la sera prima da una marcia suprematista – con tanto di torce in mano ai partecipanti – verso il campus dell’Università della Virginia, al grido di slogan quali «sangue e terra», «le vite dei bianchi contano» – in chiara contrapposizione al movimento Black lives matter («le vite dei neri contano») – e «non prenderete il nostro posto». E così la ferita sociale e razziale americana mai completamente rimarginata si è nuovamente aperta: da una parte, i suprematisti e i neonazisti, dall’altra i contromanifestanti, determinati nella loro opposizione a quel fronte per il quale – ha rimarcato il governatore della Virginia Terry McAuliffe – «non può esserci alcuno spazio», perché i suoi membri «si definiscono patrioti, ma tutto sono fuorché patrioti». A pagare con la sua stessa vita è stata l’attivista Heather Heyer, investita da James Alex Fields jr. che a bordo di una Dodge Challenger si è scagliato contro gli anti-suprematisti.

L’attesa presa di posizione del presidente – cui spetterebbe in tali situazioni un doveroso richiamo all’unità del Paese nella sua diversità – sorprendentemente però non arrivava; e, anzi, le prime parole di Trump sono state di totale condanna verso le terribili «manifestazioni di odio, intolleranza e violenza provenienti da molte parti», senza alcun riferimento specifico ai suprematisti e ai nazionalisti bianchi. Solo successivamente, il 14 agosto, l’inquilino della Casa bianca si è dimostrato più fermo nel riconoscere che «Il razzismo è male, e tutti coloro che provocano violenze in suo nome sono da considerarsi criminali, compresi il Ku-Klux Klan, i neonazisti, i suprematisti bianchi e gli altri gruppi di odio»: considerazioni da una parte sicuramente più circostanziate, ma anche ritenute da diversi ambienti tardive quando non addirittura piuttosto tiepide. Poi, il giorno successivo, dalla Trump Tower di New York, un nuovo revirement, in occasione di una conferenza stampa il cui tema principale avrebbe dovuto essere quello delle infrastrutture. Certo, neonazisti e suprematisti sono da condannare – è stata la tesi del presidente – ma perché si parla di alt-right, ossia della destra alternativa e delle sue responsabilità nei fatti di Charlottesville, e non di alt-left? Se infatti è indiscutibile che da una parte ci fosse un gruppo di violenti, anche dall’altra parte – ha sottolineato il presidente – c’era un gruppo di violenti, per quanto nessuno voglia dirlo. Quanto alla sua presa di posizione – ha precisato – essa non è affatto stata tardiva, ma semplicemente ritardata per avere una piena cognizione di quanto accaduto in Virginia. E a tal proposito – ha rimarcato ancora Trump – è bene riconoscere che non tutti quelli che stavano protestando a Charlottesville erano neonazisti o suprematisti bianchi, ma c’era anche chi contestava soltanto la rimozione della statua del generale Lee. Se dunque oggi tocca a Lee – è stata la domanda retorica del presidente – domani forse toccherà alle statue di George Washington o di Thomas Jefferson, che pure hanno avuto schiavi?

Le parole di Trump non hanno comunque convinto: in primis, i repubblicani si sono schierati compatti contro le manifestazioni razziste di Charlottesville, condannando inequivocabilmente il fronte suprematista. Durissime critiche sono inoltre arrivate dal mondo degli affari, tanto che il presidente è stato di fatto costretto a sciogliere due squadre di consiglieri – il Manufacturing Council e lo Strategy & Policy Forum – a causa dell’intenzione di molti componenti di dimettersi, marcando così le distanze dalle posizioni espresse da Trump sui fatti della Virginia. Sul punto, però, l’inquilino della Casa bianca ha provato a mostrarsi poco intimorito: per ogni amministratore delegato che vuole lasciare il team di consiglieri – ha twittato – ce ne sono molti altri pronti a entrare.

Dopo gli eventi di Charlottesville, però, ha lasciato il suo posto da chief strategist alla Casa bianca Steve Bannon, eminenza grigia di Breitbart – sito di riferimento di alt-right – e vera figura di ‘collegamento’ tra il presidente e una parte di quella destra che in Virginia si è fatta sentire. Personaggio poco gradito al resto della squadra presidenziale, Bannon sarebbe stato in realtà da tempo in contrasto con lo stesso Trump, in particolare – secondo quanto riportato dal New York Times – per la sua tendenza a trasmettere informazioni alla stampa sulle continue frizioni tra i componenti dell’amministrazione. Secondo quanto riportato dallo stesso Bannon, la sua uscita di scena sarebbe stata concordata con il presidente e con il capo di gabinetto Kelly per il 7 agosto, ben prima dunque dei fatti di Charlottesville, e anzi ritardata proprio a causa delle proteste e delle violenze verificatesi in Virginia.

Quasi profeticamente, Ronald A. Klain aveva osservato sul Washington Post come il mese di agosto – più quieto e dai tempi più dilatati anche per la politica – potesse in realtà rivelarsi pericoloso per Trump. I precedenti non mancavano: nell’agosto 2001 – rilevava Klain – Bush aveva ricevuto informazioni sull’obiettivo di Bin Laden di colpire gli USA, e sempre ad agosto – questa volta nel 2005 – la seconda amministrazione del presidente repubblicano si era trovata ad affrontare il dramma dell’uragano Katrina. Ancora, nell’agosto del 2014, l’amministrazione di Barack Obama aveva dovuto confrontarsi con i disordini successivi all’uccisione del giovane afroamericano Michael Brown da parte di un poliziotto e, in politica internazionale, con l’ascesa del sedicente Stato islamico. Secondo Klain, i maggiori rischi dell’agosto trumpiano erano legati alle difficoltà che i membri del Congresso – rientrati nei loro collegi di riferimento – avrebbero avuto nello spiegare i ritardi dell’attuazione di molte delle promesse della campagna elettorale. E poi, agosto negli USA è mese di uragani, con tutti i problemi che ne conseguono.

In questi giorni, l’uragano Harvey sta lasciando la sua impronta sugli USA; mentre i fatti di Charlottesville hanno mostrato un’America che deve ancora fare i conti con le sue contraddizioni.