Intervista a Zeno D’Agostino*

Nel 2022 il porto di Trieste ha registrato una crescita importante, portando benefici al sistema portuale e al territorio. Le turbolenze geopolitiche e lo spettro della recessione rischiano di minare questo trend?

Premesso che le statistiche sono importanti, ma sono solo uno dei fattori che vengono presi in esame, ad oggi è necessario considerare due elementi: lo stato dell’economia e la trasformazione delle catene logistiche globali. Prima del Covid, le supply chain erano molto tirate, incentrate su un modello just in time che non prevedeva scorte. Di qui la necessità di accorciare le catene del valore ricollocando la produzione più vicino ai mercati di consumo. Inoltre, c’è stata una tendenza degli operatori ad accumulare scorte nei principali nodi globali in previsione di ulteriori shock. Ne deriva che la crescita dei volumi dei traffici era una diretta conseguenza della trasformazione della logistica su base globale. Ma sorge un problema, quello di scorte che il mercato non assorbe perché manca il consumo. Certamente il 2023 non avrà numeri entusiasmanti, ma nonostante alcuni fattori economici siano negativi, si aprono nuove opportunità. Per coglierle è necessario vederle e adeguarsi. Il porto di Trieste è andato strutturandosi non solo per essere un porto, ma anche un’area logistica, un punto franco che favorisca nuovi insediamenti produttivi. I dati potranno essere anche negativi, ma nel frattempo si sono create le condizioni per generare valore aggiunto e occupazione.

Due novità importanti: la creazione del primo corridoio doganale internazionale tra Trieste e l’Austria e il riconoscimento del punto franco per lo stabilimento di British American Tobacco. Si premiano così le tante iniziative atte a trasformare le attività portuali nello scalo giuliano. A che punto è lo sviluppo infrastrutturale del porto?

Grazie ai finanziamenti in corso e agli investimenti previsti dai concessionari, la capacità portuale verrà più che raddoppiata. Non vogliamo commettere l’errore di espanderci solo sul mare, ma intendiamo sviluppare tutto ciò che sta dietro il porto, specialmente per quel che riguarda l’infrastruttura ferroviaria. Inoltre, c’è un tema che non può essere ignorato, ossia il rapporto tra città e porto. I porti sono immersi in un contesto urbano, e il nostro obiettivo deve essere quello di creare valore e occupazione per la città. Le attività portuali saranno sempre più automatizzate e richiederanno meno forza lavoro. Quindi è necessario trovare altri contesti collegati alla realtà portuale dove impiegare la forza lavoro che una volta era attiva nelle classiche attività portuali. Da manager pubblico non devo solo guardare alla salute economica dell’ente, ma devo creare le condizioni affinché ci sia nuovo valore aggiunto e occupazione per il territorio. Come ripeto spesso, il futuro del porto non è il porto.

La recrudescenza del Covid in Cina rischia di rallentare le attività nei porti asiatici. Si sente parlare spesso di reshoring e nearshoring, ma non sono fenomeni immediatamente realizzabili. Avremo nuove ripercussioni in Europa?

C’è un altro tema da tenere in considerazione, il dual sourcing, dove per contenere gli shock non serve spostare l’intera produzione localizzata in Cina, ma basta frammentarla su vari siti produttivi a livello globale. In generale, l’elemento che emerge da questi fenomeni è che la Cina perde peso dal punto di vista manifatturiero, a cui segue una perdita in termini economici e geopolitici. Oggi la Cina è quella che è perché ha una capacità economica e di innovazione fortissima. Ma questi modelli non possono essere applicati su tutto, perché ci sono settori, come la produzione di celle solari, dove la Cina è essenzialmente un monopolista. Se vogliamo essere in grado di riallocare la produzione industriale dobbiamo essere capaci di aggredire quell’innovazione tecnologica. Da qui a 5-10 anni lo strapotere cinese può essere ridimensionato.

L’acquisto da parte di COSCO (C__hina Ocean Shipping Company) del 24,9 % del terminal di Tollerot nel porto di Amburgo ha rimesso sotto i riflettori le attività cinesi nei porti europei. In Italia, Trieste e Genova erano i principali destinatari del Memorandum of understanding firmato nel 2019. Dopo un periodo di stop dettato dalla pandemia e dagli avvertimenti americani, assisteremo ad un nuovo assertivismo cinese in Europa?

C’è una variabile che è fondamentale, la guerra in Ucraina. Prima del conflitto, ognuno poteva ritenere lecito creare alleanze e partnership con Pechino sulla base di propri interessi e assunti. Ma il posizionamento della Cina rispetto al conflitto rende oggi difficile accettare che nuovi accordi o investimenti vengano posti in essere. A livello comunitario, Bruxelles ha già un meccanismo che prevede un’opinione sugli investimenti fatti da soggetti che sono emanazione pubblica di Paesi terzi. Ma l’intenzione della Commissione è quella di stabilire un meccanismo più stringente e coercitivo per riequilibrare tutti gli investimenti in settori sensibili da parte di soggetti terzi. Ho alcuni dubbi in merito a quest’ultimo dispositivo, ma è chiaro come la guerra abbia cambiato l’atteggiamento europeo nei confronti della Cina.

La nomina a presidente di ESPO (European Sea Ports Organisation), l’associazione europea dei porti, sposta il baricentro verso il Sud e il Mediterraneo. Cosa serve ai porti mediterranei per crescere e competere con il Nord Europa?

Dal punto di vista del mercato non manca nulla. Manca però la capacità politica, organizzativa e finanziaria che i porti del Nord Europa hanno acquisito e sviluppato nel corso degli anni. Inoltre, nel Nord Europa si è andato consolidando uno stretto legame tra l’ecosistema portuale e il mondo finanziario e bancario per nulla paragonabile a quello del Sud Europa. Ad esempio, Trieste ha invertito questo trend, riuscendo a costruire un rapporto forte e costruttivo con banche ed investitori istituzionali, privati e pubblici. Il tema è la capacità manageriale e il grado di innovazione raggiunto, data soprattutto da un aspetto dimensionale. Chi è più grande affronta temi più importanti di quelli dei più piccoli. Faccio un esempio. Il ruolo dei porti del Nord Europa nel settore energetico, così come per quanto riguarda la sostenibilità, ha raggiunto livelli di maturità e qualità altissima. Ne consegue che i porti del Sud devono iniziare a studiare e a capire come possono essere replicate nei rispettivi contesti le iniziative prese dagli scali del Nord.

Due considerazioni. La presenza di grandi operatori del mercato rischia di depotenziare il ruolo delle autorità portuali? Inoltre, come vede la decisione della Commissione di assoggettare il settore del trasporto marittimo al regime degli ETS (Emission Trade System)?

I grandi operatori rischiano di depotenziare il ruolo degli Stati. È chiaro che è più semplice dialogare con poche realtà invece che con tante, dove è più facile incontrare potenziali punti deboli del sistema. Per governare questo sistema sono necessari poteri forti e competenze a livello centrale. A fronte della riduzione dei soggetti, il numero di porti rimane inalterato e quindi diventano relativamente più deboli. Serve qualcuno che studi e comprenda questi fenomeni, anche a livello europeo. Abbiamo assistito ad un aumento dei noli, ma nonostante ciò l’antitrust europeo non ha compreso il fenomeno. Non fa paura la concentrazione del mercato, è un fenomeno normale, ma è necessario organizzarsi. Le regole ci sono ed è chiaro che vadano aggiornate.

Sull’applicazione degli ETS c’è un problema relativo alla differenza di tassazione del 50% sulle linee tra porto extraeuropeo e porto europeo e del 100% tra porti europei, con un effetto distorsivo sui porti di transhipment europei. Va bene essere duri ma bisogna partire dal dialogo con le compagnie marittime. Una volta considerati i tempi e lo stato del naviglio, si deve lavorare in modo congiunto su quali progetti puntare e come implementarli. I temi sono tanti e vanno presidiati. Secondo me, bisogna strutturare meglio il lato pubblico se vogliamo affrontare certi fenomeni evolutivi. La questione è politica. Trieste ancora una volta dimostra che questo è possibile. La vera azione portata avanti in questi anni è stata l’aumento del peso della parte pubblica pur mantenendo un ambiente competitivo capace di attrarre investimenti privati.

Si parla spesso di amarittimità, di sea blindness. Il nostro Paese continua a non voler intraprendere una seria riflessione sul mare e sul suo sviluppo. Trieste, invece, dimostra che pianificazione e progettualità pagano sul medio lungo termine. Lo scalo giuliano rappresenta una best practice o è un caso a sé stante?

Il contesto è in continua evoluzione e data l’imprevedibilità di ciò che accade è necessario un ruolo del pubblico più forte. Ma per esserlo bisogna essere più intelligenti. Trieste rimane una best practice che ha delle linee guida ben definite il cui scopo è creare un ecosistema, dove eco sta per economia, che è in grado di assorbire meglio gli shock globali. Bisogna saper studiare e capire questi fenomeni, e per farlo è necessaria un’intelligenza non banale.

*Zeno D’Agostino è il presidente dell’Autorità di Sistema Portuale del Mare Adriatico Orientale

Immagine: Panoramica del porto di Trieste. Crediti: bepsy / Shutterstock.com

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