10 luglio 2014

Il gioco del pollo tra Israele e Hamas

Nella notte tra martedì 8 luglio e mercoledì 9 sono ripresi i lanci di missili dalla Striscia di Gaza verso alcune città israeliane. L’Israeli Defence Force (IDF) ha risposto agli attacchi con un’operazione militare denominata “Margine di Protezione” che tramite circa 160 raid aerei ha colpito oltre novantasei sistemi di lancio missilistico, campi di addestramento e basi militari di Hamas, il movimento terroristico palestinese che controlla la striscia di Gaza.

L’escalation militare ha toccato il suo culmine nel tardo pomeriggio di mercoledì 9 luglio, quando il presidente israeliano Shimon Peres ha minacciato di invadere con truppe terrestri Gaza laddove non cessasse il lancio di missili da parte di Hamas. Poche ore prima sette razzi palestinesi, secondo quanto riferisce DEBKAfile erano caduti vicino alla centrale nucleare di Dimona, nel deserto del Negev. Le autorità palestinesi riferiscono la morte di circa trentotto persone tra cui trenta civili per effetto delle incursioni di aerei e droni israeliani. L’escalation militare, iniziata con i lanci di razzi di Hamas verso Israele, si è innescata a causa del ritrovamento del cadavere di Mohammed Abu Khdeir, ucciso e arso vivo da tre coloni israeliani in risposta al rapimento e all’uccisione, il 12 giugno scorso, di tre giovani ragazzi israeliani da parte di alcuni appartenenti di Hamas. Per la prima volta il sistema antimissile israeliano Iron Dome (Cupola d’Acciaio) è entrato in funzione non solo a protezione di città costiere del Sud come Ashkelon e Ashdod, ma anche a Gerusalemme e Tel Aviv. Dal punto di vista tattico significa che Hamas, oltre ai soliti missili Qassam dal raggio più ridotto e ai missili Grad di fabbricazione russa (che hanno colpito senza conseguenze anche la città di Beersheva, nel cuore del Negev), è entrato in possesso dei più temibili missili di fabbricazione iraniana Al-Fajr 5, in grado di colpire più in profondità Israele. Il livello di allerta per i cittadini israeliani è elevato, nelle città del Sud il governo raccomanda di non trovarsi a oltre 15 secondi da un rifugio, a Tel Aviv sono stati aperti 241 nuovi rifugi pubblici, mentre l’aeroporto Ben Gurion ha spostato a nord alcune delle tratte più importanti. Lunedì 7 luglio il ministro degli Esteri israeliano, il falco Avigdor Lieberman, ha annunciato il ritiro della delegazione di undici deputati del suo partito Yisrael Beiteinu dal governo presieduto da Benjamin Netanyahu, accusato di una risposta “troppo debole” verso i responsabili dell’uccisione dei tre ragazzi israeliani. Il giorno successivo Netanyahu ha annunciato “la fine del trattamento coi guanti” per Hamas. Nelle stesse ore Abu Obeida, portavoce delle Brigate Ezzedine al Qassam (il braccio più violento di Hamas) annunciava il lancio di missili verso Tel Aviv. Il sistema Iron Dome ha sinora limitato i danni subiti da Israele. Un sistema di computer situato ad Ashdod calcola in millesimi di secondo il tempo di caduta dei missili di Hamas e invia l’algoritmo a Iron Dome che immediatamente spara un razzo intercettore in grado di neutralizzare il missile diretto verso Israele. Ogni lancio di Iron Dome costa a Tel Aviv circa sessantamila dollari, mentre il costo di un razzo rudimentale per Hamas è di circa cinquecento dollari. La sproporzione economica tra le parti è utile ad avere un’idea della sostenibilità economica di uno stallo dei combattimenti come quello in corso. Dal punto di vista strategico l’obiettivo di Israele è duplice. Da un lato il retroterra teorico che sottende l’intera operazione militare è la necessità israeliana di disporre di un potere di deterrenza efficace nei confronti dei nemici regionali. L’uccisione di un giovane palestinese da parte di tre coloni israeliani, subito duramente condannata dallo stesso Netanyahu, ha fortemente inibito l’efficacia di una risposta militare israeliana contro Hamas. La prudenza di Netanyahu ha in parte qui una spiegazione. Il secondo obiettivo di Israele è quello di colpire duramente la struttura di comando di Hamas, “tagliare la testa del serpente” secondo la formula utilizzata da Yisrael Katz, ministro dei Trasporti israeliano. Hamas si trova oggi in una condizione di debolezza per cause interne ed esterne. Dal punto di vista interno Abū Māzin è ormai vecchio e stanco, il suo appello alla pace e la sua scarsa capacità di controllo sulle frange più violente ne sono un sintomo evidente. Dal punto di vista degli appoggi esterni, Hamas con l’arrivo di al-Sīsī in Egitto ha perso un canale di trasmissione privilegiato. I Fratelli Musulmani avevano di fatto reso i tunnel sotterranei del Sinai la retrovia del transito di armi da e verso Gaza. La guerra civile siriana ha fatto perdere ad Hamas qualsiasi avamposto a Damasco e in Siria. Una condizione di debolezza che Israele, dopo l’uccisione dei tre giovani rapiti, aveva intenzione di sfruttare. Israele ha richiamato oltre quarantamila riservisti mentre divisioni di Tsahal transitano da Sderot verso Gaza. Il portavoce dell’esercito israeliano Peter Lerner ha dichiarato: “I nostri cittadini non vivono sicuri ad Ashkelon e Ness Ziona, non vedo perché i leader di Hamas debbano sentirsi sicuri a Gaza”. Hamas considera la distruzione dell’abitazione di Raed el Attar, tra i rapitori del caporale israeliano Gilad Shalit, “la linea rossa” che Israele avrebbe oltrepassato con i suoi raid aerei. Secondo uno scoop pubblicato ieri dal The Daily Beast, il reale responsabile del rapimento e dell’uccisione dei tre studenti del Talmud israeliani sarebbe però un operativo di Hamas che si troverebbe attualmente in Turchia: Saleh al-Arouri. La mente dietro il rapimento e l’uccisione dei tre ragazzi israeliani si troverebbe cioè in un paese Nato, se fosse vero quanto riferito da Matthew Levitt, esperto di antiterrorismo del The Washington Institute for Near East Policy. “Israele sta bombardando il paese sbagliato”, secondo l’interpretazione volutamente provocatoria del Daily Beast che ha titolato così il pezzo. L’impressione tuttavia è che i tentativi di de-escalation, a dispetto della propaganda ufficiale, proseguano. Netanyahu non ha escluso un’operazione terrestre, Peres l’ha evocata esplicitamente, ma entrambi conoscono i rischi che ne deriverebbero e per il momento le uniche operazioni militari autorizzate sono di dissuasione nei confronti di Hamas. Abū Māzin ha sì da un lato parlato di “genocidio in corso”, ma si è anche pronunciato con un appello alla pace, sintomo che uno spiraglio rimane aperto. Il problema di Abū Māzin è che non è più in grado di controllare le ali più violente di Hamas. Barack Obama ha firmato martedì 8 luglio un editoriale sul quotidiano israeliano Haaretz per chiedere una tregua nei combattimenti. L’obiettivo primario israeliano, ristabilire il proprio potere di deterrenza nei confronti di Hamas, è divenuto politicamente complicato per le rappresaglie effettuate dai coloni ebraici costate la vita ad un giovane palestinese. L’obiettivo secondario, ma strategicamente più rilevante, indebolire ulteriormente Hamas approfittando di circostanze favorevoli (e non facilmente ripetibili) sembra anch’esso pregiudicato: qualsiasi azione di Israele sembra spropositata e il prezzo che Tel Aviv paga di fronte alla comunità internazionale è difficilmente sostenibile. Secondo i teorici del conflitto stabile, l’attuale condizione di warfighting non sarebbe tuttavia sostenibile nel lungo periodo per ragioni economiche: i costi del sistema Iron Dome. Dall’altro lato però una pace strategica basata su una deterrenza efficace israeliana non potrebbe essere ristabilita per ragioni politiche: i costi in termini d’impopolarità per Israele. A meno che non vi sia un incidente in grado di autorizzare una risposta più dura da parte di Israele, come l’invasione terrestre della Striscia, la soluzione che s’intravede all’orizzonte è quella che nella teoria dei giochi viene chiamata chicken game, gioco del pollo. Una configurazione a somma non nulla in cui entrambi i giocatori non hanno incentivi a una cooperazione stabile, dato che l’alternativa è tra perdere la faccia o perdere tutto. L’altra ragione per cui, salvo imprevisti, questo stallo nei combattimenti (che non significa assenza di combattimenti, ma mancanza di una soluzione strategica) potrebbe proseguire a lungo è più profonda. Nel gennaio scorso il leggendario ex capo del Mossad Meir Dagan, nel corso di un raro incontro pubblico, ha escluso che per Israele il confine con la Giordania fosse un problema di sicurezza. La pace del piccolo Stato ebraico può essere presidiata solo difendendo un fronte alla volta, e oggi questa situazione è radicalmente cambiata. Le truppe dello Stato Islamico e del Levante, che controllano ormai una striscia di terra molto ampia a cavallo tra Siria e Iraq, minacciano di arrivare sino ad Amman. Se venisse meno la sicurezza del Regno hashemita per Israele significherebbe avere un secondo fronte caldo, molto più esteso, dopo quello a sud con Gaza. Un assedio strutturalmente non sostenibile, anche per un esercito preparato e tecnologicamente fornito come quello israeliano.

 

Pubblicato in collaborazione con Altitude, magazine di Meridiani Relazioni internazionali


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