Nel mese di aprile si è tenuto a Pechino un incontro storico tra i ministri degli Esteri di Arabia Saudita e Iran. I due Paesi da anni evitavano vertici a livello governativo per via dell’ostilità nata dal tentativo di entrambi di conquistare il predominio della regione; ostilità che si è concretizzata attraverso una serie di “proxy war” tra le due potenze, di cui la più nota, e probabilmente tragica dal punto di vista umanitario, è quella che vede coinvolto lo Yemen. L’incontro ha portato innanzitutto alla promessa di riaprire le rispettive ambasciate e, di conseguenza, di riallacciare rapporti diplomatici formali. Si tratta del coronamento di un lavoro orchestrato nel corso dei mesi precedenti dal governo cinese, il quale raccoglie senza dubbio un importante risultato di politica estera in un teatro regionale che, almeno fino a questo momento, ha visto la Repubblica Popolare Cinese per lo più defilata.

La Cina per anni è stata un Paese amico del governo di Teheran; non si è però mai particolarmente distinta per gli interventi in Medio Oriente, lasciando invece spazio d’azione alla Russia. Sul fronte opposto, la partnership strategica ormai pluridecennale che lega Arabia Saudita e Stati Uniti ha rappresentato una diga di contenimento rispetto alla penetrazione cinese nello Stato arabo. Per questo la mediazione operata dal governo cinese rappresenta, al tempo stesso, una mano tesa verso Riyad e un guanto di sfida lanciato contro Washington. In un’ottica di competizione sempre più accesa tra le due superpotenze, la strategia di Pechino consiste nel cercare di porsi quale nuovo punto di riferimento alternativo agli Stati Uniti nei diversi scacchieri regionali.

I piani del governo cinese sono stati senza dubbio dettati dalla situazione contingente dei rapporti bilaterali tra Arabia Saudita e Stati Uniti, sempre più freddi a causa delle diverse critiche rivolte dall’amministrazione Biden verso il governo del principe ereditario saudita, nonché leader di fatto, Mohammad bin Salman e concernenti soprattutto le ripetute violazioni dei diritti umani. A questo proposito la Cina continua a porsi come punto di riferimento ideale per le autocrazie di tutto il mondo poiché indifferente alle pratiche interne di esercizio del potere del potenziale partner. Una prospettiva senza dubbio più allettante per un Paese non democratico rispetto alle richieste e alle pressioni solitamente esercitate dai governi occidentali; una postura spesso e volentieri più formale che sostanziale, ma comunque necessaria per i governi democratici occidentali al fine di giustificare le loro azioni in ambito internazionale nei confronti della propria opinione pubblica.

Contestualmente, la Cina punta a colmare il crescente vuoto strategico che gli Stati Uniti stanno lasciando in Medio Oriente, considerato sempre più da Washington come un teatro non più vitale per i propri interessi. Da tempo, ormai, gli Stati Uniti hanno cambiato la propria strategia di approvvigionamento energetico, diversificando i fornitori e superando la storica dipendenza dalle forniture provenienti proprio dal Medio Oriente. Al contempo, l’endemica instabilità politica del Medio Oriente si è rivelata per gli americani un fardello sempre più pesante in termini di assorbimento di risorse politiche, economiche e militari. Il governo americano, peraltro, guarda sempre di più al Pacifico e all’Asia (sud)orientale e meridionale quali orizzonti cruciali per la propria “grand strategy”, identificando queste zone come terreno di confronto decisivo con Pechino. In virtù di ciò, dal punto di vista americano l’idea di non costituire più la potenza di riferimento in Medio Oriente è considerata come un sacrificio accettabile, se non persino necessario in un’ottica di ottimizzazione delle proprie risorse e possibilità.

Dal punto di vista cinese, la regione del Golfo e il Medio Oriente divengono invece sempre più luogo di passaggio di enorme importanza nella realizzazione delle sue grandi rotte di commercio internazionale, le cosiddette Nuove Vie della Seta. Pechino si fa infatti portatrice di una strategia, ormai rodata da tempo in altre zone del pianeta, d’inserimento innanzitutto economico e volto a supportare il successivo ascendente politico. Nel corso degli ultimi decenni, nonostante non sia mai stata un attore cruciale nella regione per la risoluzione delle sue controversie storiche, Pechino ha lavorato pazientemente per rafforzare i propri legami economici con i Paesi arabi del Golfo grazie soprattutto a un’impennata nella richiesta di idrocarburi provenienti dall’area e i cui proventi sono volti a sostenerne l’espansione industriale al punto che, allo stato attuale, il giro d’affari di questi Paesi con la Cina ha superato quello che essi hanno con l’Europa.

Nel 2022, un importante incontro multilaterale tra il governo cinese e il Consiglio di cooperazione degli Stati arabi del Golfo ha stabilito lo stato dell’arte di questo nuovo matrimonio d’interessi costruito sia sul breve termine (la crescente domanda cinese di petrolio e gas naturale), sia nel lungo periodo (grossi investimenti da parte di Pechino legati alle Nuove Vie della Seta cinesi in linea con gli obiettivi di progressiva diversificazione dell’economia da parte dei Paesi arabi del Golfo). Con l’incontro a Pechino tra Arabia Saudita e Iran, la Cina ha dato inizio a una nuova fase della sua strategia per il Medio Oriente volta a maggiori intensità e impegno nella regione.

Se, al momento, l’ascendente cinese appare irresistibile, si possono già riscontrare almeno tre elementi di criticità e sfida che la Cina sarà chiamata ad affrontare per evitare che il lavoro nonché gli investimenti fatti nell’area vengano vanificati.

In primo luogo, Pechino sta operando innanzitutto con l’obiettivo di portare l’equilibrio globale in un’ottica sempre più multipolare, limitando, laddove possibile, le capacità di proiezione a livello internazionale da parte degli Stati Uniti. Anche sotto questo profilo, la Cina si trova in una convergenza d’interessi con i Paesi arabi del Golfo; tuttavia, la pressione crescente esercitata dal governo cinese verso un equilibrio multipolare potrebbe portare a risultati non previsti e, probabilmente, non graditi a Pechino. Con la contrazione dell’ex egemone americano nella regione, infatti, altre grandi potenze potrebbero cogliere l’occasione e porsi come nuovi competitor della Cina. Turchia e India sono, in questa prospettiva, due candidati ideali, in grado di fornire potenzialmente ai Paesi della regione benefici che Pechino, in questo momento, non può o comunque non desidera fornire. Nel caso della Turchia, per esempio, si possono ipotizzare vantaggi legati alla sicurezza e al sostegno militare, basti pensare alla base turca sita in Qatar.

Ciò conduce al secondo elemento di potenziale criticità, ossia la decisione da parte cinese di puntare prevalentemente sul proprio potenziale economico, evitando, almeno per il momento, decisioni scomode dal punto di vista politico che porterebbero inevitabilmente la Cina a schierarsi all’interno di un dato conflitto. In una regione tanto frammentata quanto sconvolta da conflitti di varia intensità, la volontà cinese di non prendere posizioni nette e cercare di fare buoni affari con tutte le potenze locali potrebbe inibire l’ascendente accumulato da Pechino, soprattutto in caso di escalation in un determinato conflitto. Convincere Arabia Saudita e Iran a riaprire le rispettive ambasciate è senza dubbio un grande risultato, ma non ci si può esimere dal chiedersi se ed eventualmente come la Cina intenda operare per contribuire a risolvere una situazione come quella yemenita. Di fronte a esigenze politiche e di sicurezza considerate fondamentali da un dato Paese, ad esempio la pressione degli Houthi yemeniti sui confini sauditi, accordi commerciali e investimenti potrebbero non bastare a convincere Riyad a sedersi a un tavolo e trattare con l’Iran, patrona dei miliziani Houthi.

Infine, la strategia d’influenza di Pechino a livello internazionale, e il Medio Oriente non fa eccezione, è sostenuta dalla poderosa espansione dell’economia cinese nel corso degli ultimi decenni. Tale situazione non è destinata a perdurare per tutto il resto del XXI secolo e lo spauracchio di un’improvvisa crisi economica o di una “semplice” stagnazione dell’economia è sempre dietro l’angolo. Di fronte a scenari del genere è necessario, per il governo cinese, avere già adesso delle strategie alternative a sostegno dei propri obiettivi internazionali. In caso contrario, la sfida all’egemonia americana perderebbe slancio prima ancora di entrare nel vivo.

Per approfondire

Immagine: Da sinistra, Mohammad bin Salman e il presidente cinese Xi Jinping in occasione del vertice del G20, Hangzhou, Cina (4 settembre 2016). Crediti: Salma Bashir Motiwala / Shutterstock.com

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