La notizia della sentenza emessa lo scorso 31 maggio dalla Corte d’appello del meccanismo residuale per i tribunali penali internazionali dell’Aja, chiamati a giudicare sui crimini di guerra in ex Iugoslavia, è stata oscurata, quasi integralmente, dal concomitante clamore prodotto dalla violenza dei dimostranti serbi contro le forze della KFOR (Kosovo Force) a Zvečan, Kosovo del Nord, con 30 militari feriti tra cui 11 italiani. Si tratta di una sentenza di notevole rilievo per la giustizia internazionale, l’ultima pronunciata dopo una lunga stagione di processi ai criminali di guerra che, per parte loro, hanno disintegrato e insanguinato la Iugoslavia. Istituito il 25 maggio 1993 durante la guerra per perseguire tutti i crimini commessi, il tribunale è stato la prima corte penale del Novecento costituita non dai vincitori – come nel caso di Norimberga e Tokio – ma dalle Nazioni Unite con risoluzione 827 del Consiglio di sicurezza.
La rilevanza della sentenza consiste nell’aver confermato coi crismi della legalità internazionale, cioè «oltre ogni ragionevole dubbio», che i crimini di guerra delle forze legate agli apparati della Serbia allora presieduta da Slobodan Milošević non sono stati commessi «in modo casuale o disorganizzato, bensì nel corso di operazioni ben pianificate e coordinate, dimostrando l’esistenza di uno scopo criminale comune» (160/41863). Ciò che la Corte ha pertanto provato è che «almeno dall’agosto 1991 e in ogni momento rilevante per i reati contestati nell’atto d’accusa, esisteva lo scopo criminale comune di rimuovere forzatamente e definitivamente, attraverso la commissione dei reati di persecuzione, omicidio, deportazione e atti disumani (trasferimenti forzati), la maggioranza di non serbi, principalmente croati, bosniaco musulmani e croati bosniaci, da vaste aree della Croazia e della Bosnia ed Erzegovina» (160/41863).
Le condanne a 15 anni di reclusione comminate a Jovica Stanišić e Franko Simatović, ex funzionari dei servizi di sicurezza della Serbia, cioè di apparati di suprema importanza statuale, hanno permesso di giudicare non solo le responsabilità individuali del caso. La sentenza ha anche provato in sede legale che lo «scopo criminale comune» era condiviso da alti dirigenti politici, militari e di polizia della Serbia con i loro sodali presenti nelle varie entità serbe autoproclamate agli albori della guerra in Bosnia e Croazia. Va ricordato che non tutte queste entità sono estinte poiché l’unica ancora esistente è la Repubblica Serba (Republika Srpska) in Bosnia ed Erzegovina, famigerata per il genocidio di Srebrenica e presieduta fino al 1998 da criminali di guerra del calibro di Radovan Karadžić e Biljana Plavšić. Proprio quest’anno, dopo l’invasione russa dell’Ucraina, le autorità in carica della Repubblica Serba hanno conferito l’onorificenza maggiore a Vladimir Putin, considerato l’alleato di massima grandezza anche perché – ha rimarcato il presidente Milorad Dodik – «la posizione della Repubblica Serba è stata preservata grazie alla Russia».
La rinnovata tensione che attraversa queste aree dei Balcani occidentali è quindi acuita dai riflessi della guerra della Russia contro l’Ucraina e si riverbera diffusamente, con momenti estremi come quelli vissuti nei giorni scorsi. In effetti, lo stesso 30 maggio due aerei bombardieri strategici supersonici degli Stati Uniti hanno platealmente sorvolato Sarajevo e altre città bosniache. Si è trattato di una esplicita dimostrazione di sostegno alle forze armate della Bosnia ed Erzegovina nonché della «costante dedizione degli Stati Uniti verso la sovranità, l’integrità territoriale e la natura multietnica della Bosnia-Erzegovina». Il sorvolo militare di tali aerei, affatto rituale, accade quando s’intensifica lo sforzo della Bosnia-Erzegovina d’avanzare nel suo percorso d’integrazione nell’Unione Europea, dopo il riconoscimento dello status di candidato acquisito lo scorso dicembre; ma ciò avviene tra le costanti minacce secessioniste da parte di Dodik, del suo governo e delle forze – interne ed esterne – che lo sostengono. Costui, appena rientrato in Bosnia ed Erzegovina da una visita a Mosca il 23 maggio, ha descritto la dimostrazione statunitense come una «provocazione, intimidazione e pressione», rivolgendo poi all’ambasciatore degli Stati Uniti un lapidario messaggio: «bastardo». Tre giorni fa, il 6 giugno, il presidente Putin lo ha insignito a Mosca dell’onorificenza dell’Ordine di Alexander Nevsky, la stessa conferita nel 2019 al presidente della Serbia Aleksandar Vučić.
Proprio a Vučić vanno, per ora, i maggiori benefici politici di questo momento di tensione internazionale riacuitasi in Kosovo. Perlomeno, in questa prospettiva, essa ha sedato l’ennesima crisi politica in Serbia, stavolta innescatasi dopo le stragi che in due giorni (3-4 maggio) hanno causato 17 morti e numerosi feriti, tra cui molti minorenni. Quei fatti inauditi hanno scosso il Paese e generato reazioni di protesta poi soffocate dalle dimostrazioni nazionaliste seguite alle violenze in Kosovo che hanno rinsaldato il governo di Belgrado. D’altra parte, l’instabilità nel Kosovo settentrionale resta un cuneo piantato in Europa tanto quanto la precarietà della Bosnia con le sue lacerazioni politiche. Cosa attenda nel prossimo futuro queste aree dei Balcani occidentali non è noto. Non lo è neppure quel che accadrà nel quadro maggiore della guerra in Ucraina, stante il mandato di arresto della Corte penale internazionale nei confronti di Vladimir Putin e Maria Lvova-Belova per il crimine di guerra di deportazione e trasferimento forzato di popolazione. Di certo, se la storia insegna poco o niente alla politica, tantomeno lo fanno le sentenze.
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