L’umanità ha scoperto l’energia atomica il 2 dicembre 1942, quando Enrico Fermi attivò a Chicago il primo reattore nucleare CP-1. Tre anni dopo il mondo ne scoprì la potenza bellica, quando gli Stati Uniti d’America scagliarono contro il Giappone il primo e finora unico bombardamento atomico. A settantacinque anni da quella scoperta le profonde conseguenze politiche del suo impiego bellico sono intatte e riemergono implicitamente nelle crisi d’Iran e Corea, entrambe legate allo sviluppo vero o presunto di programmi nucleari. Ciò accade per un motivo essenziale: l’uso dell’arma nucleare ha sconvolto l’umanità irrompendo nella cultura popolare e il riemergere della sua minaccia si presenta sempre, incubo non sopito, come minaccia esistenziale.
È un atteggiamento comprensibile e realistico. La vera portata storica del fatto nucleare non è racchiusa nella complessità della risposta che l’equilibrio del terrore ha offerto durante la guerra fredda, cioè all’ipotesi inverificabile che la terza guerra mondiale sia stata evitata dallo stallo nucleare fra URSS e USA, dalla presenza di un sistema d’arma il cui uso poteva essere solo artatamente minacciato ma non razionalmente attuato. La vera portata storica del fatto nucleare risiede nella semplicità del quesito che Norberto Bobbio pose proprio in quel periodo, evocando la realtà di Hiroshima e l’epilogo della seconda guerra mondiale: «Quando mai erano stati sterminati in un sol colpo più di centomila uomini?». Meditando una risposta ciascuno può riflettere su un «prima» e un «dopo» che divaricano il concetto di vita e di morte, al punto di rendere patrimonio collettivo e non più individuale il senso della possibilità della seconda.
È vero che gli esseri umani sono diventati gli uni per gli altri il pericolo più grande da quando possiedono utensili di metallo per procurarsi i mezzi di sostentamento. È però altrettanto vero che la minaccia di quel reciproco pericolo cambia al cambiare delle capacità distruttive delle armi possedute dagli uni e dagli altri. L’avvento dell’era atomica, consacrato dall’invenzione di missili balistici in grado di scagliare ordigni nucleari a migliaia di chilometri, rappresenta l’apoteosi della possibilità umana di minacciare i propri simili d’estinzione fisica improvvisa e quasi immediata. La percezione di questa possibilità produce, di per sé, un senso di minaccia diffuso che solo il possesso del nucleare genera. La ragione di questa tensione è semplice.
I missili sorvolano indifferentemente gli oceani o i deserti. Sono in grado di trasportare gli ordigni da un punto all’altro del mondo, in tempi irrilevanti per qualsiasi calcolo umano diverso da quello strategico-militare. Cosicché la loro gittata non è un fatto tecnico, bensì politico. Lo è perché obbliga a ripensare la distanza spaziale e temporale che separa sicurezza e insicurezza, esistenza e sopravvivenza: «Se l’Europa diventerà una minaccia, siamo pronti a incrementare la gittata dei nostri missili fino a oltre duemila chilometri», ha detto il generale iraniano Hossein Salami, vice capo delle Guardie della rivoluzione. Egli ha così illustrato un fatto essenziale: “chiudere” la distanza fisica significa “chiudere” gli spazi politici, trasformare la lontananza in vicinanza. La logica del missile è grottesca perché trasforma la coesistenza in deterrenza e riduce la convivenza all’urgenza. Questo spiega l’importanza vitale del problema nucleare nell’età dei missili.
Oggi, ai tempi nostri, risalta un fatto: la decadenza dell’energia nucleare per l’uso civile si accompagna alla persistenza della potenza nucleare nell’uso politico. Sotto questo profilo si direbbe che la scoperta di Enrico Fermi riguardi ormai sempre meno il benessere e sempre più la sopravvivenza. Se è così la storia sembra aver beffato gli apologeti del progresso tecnologico. «Storia: il sistema planetario nell’era termonucleare»; così Raymond Aron intitolava la terza parte di Pace e guerra tra le nazioni. L’umanità vive ancora quella storia indifferente al passaggio del tempo. La vivrà fin quando gli ordigni nucleari e il tentativo di procurarseli scompariranno dalle equazioni politico-strategiche, così come stanno scomparendo le centrali nucleari dai calcoli economici dei loro costruttori. Ciò potrebbe accadere grazie al disarmo nucleare totale o all’obsolescenza atomica, quelle ipotesi di scuola utili per la loro astrazione. Gli Stati non aboliranno quest’arma come non hanno mai abolito il pugnale d’ordinanza, e la sua obsolescenza segnerebbe solo la comparsa di sistemi d’arma ancor più distruttivi. Nel frattempo le potenze nucleari e i loro alleati – Italia compresa – si rifiutano di firmare il primo Trattato per la proibizione delle armi nucleari e nel settembre scorso hanno disertato i negoziati ufficiali. Non hanno cambiato idea dopo la ratifica della Santa Sede, Thailandia e Guyana; neppure lo faranno semmai gli altri cinquanta firmatari decidessero di seguire lo Stato del Papa.
Gli Stati – tutti, alcuni, o uno solo – non cederanno le armi nucleari prima di scomparire. La ragione è ormai semplice e intuitiva. La chiarì per l’ennesima volta e con la massima urgenza Oleksander Somarskly, ambasciatore ucraino a Teheran, parlando il 16 marzo 2014: «È stato un grave errore smantellare nel 1994 le testate nucleari. Se non l’avessimo fatto la Russia non avrebbe occupato la Crimea». Dal fronte orientale dell’Europa, ancora incendiato, è giunta così la rinnovata lezione di quelli che credono all’arma suprema per sopravvivere nella giungla dei «gelidi mostri». Le ragioni della forza hanno sempre i propri interpreti, anche tra i deboli.