La Cina è sempre stata impermeabile alle influenze straniere e ha sempre avuto la tendenza a trasformare ideologie e concetti provenienti dall’esterno per adattarli alle specificità della realtà cinese. Lo aveva capito il grande gesuita italiano Matteo Ricci nel momento in cui si trovò davanti all’improba missione di convertire i cinesi al cristianesimo e per farlo aveva accettato di accondiscendere in qualche modo alle loro regole, vestendo i panni del letterato confuciano, nella convinzione che l’unica chiave potenziale di successo avrebbe potuto essere quella di conoscere la realtà cinese e di adattare il cristianesimo, al fine di renderlo accettabile per i cinesi conciliandolo con il confucianesimo.

Nei primi decenni del XX secolo, la Cina ha accolto l’ideologia marxista-leninista solo dopo un fondamentale processo di adeguamento alle condizioni specifiche del Paese, noto come “sinizzazione del marxismo”. Non è possibile, infatti, comprendere la Cina contemporanea senza riconoscere le peculiarità del marxismo cinese e considerare l’importanza del processo di cinesizzazione portato avanti dagli intellettuali radicali cinesi fin dal momento in cui le dottrine di Marx e Engels entrarono in contatto con la cultura cinese. In tempi più vicini a noi, la RPC (Repubblica Popolare di Cina), dopo decenni di riforme economiche, ha inaugurato una nuova fase di “socialismo con caratteristiche cinesi”, che rappresenta l’adattamento del socialismo e del marxismo alla mutata realtà socioeconomica cinese, attraverso l’introduzione di elementi dell’economia di mercato.

Il concetto di soft power non sfugge a questa logica. Anche in questo caso, si rende necessario prendere le distanze da quella che è una definizione consolidata, che notoriamente fa capo al politologo statunitense Joseph Nye, e in base alla quale la Cina rischia di essere sistematicamente condannata come Paese privo di particolare attrattiva. Al fine di comprendere le motivazioni che hanno consentito alla RPC di accumulare una grande influenza su scala mondiale nell’arco di pochi lustri, è necessario dunque soffermarsi sull’interpretazione cinese del soft power (ruan shili).

Quando si parla della capacità attrattiva esercitata dalla Cina in specifici contesti, o dell’accresciuta influenza cinese nel mondo, il riferimento è soprattutto ai successi ottenuti da Pechino in ambito economico (e in parte sociale), condensati in quello che è stato definito Beijing consensus o “modello Cina”. A questo punto è importante rilevare come, secondo lo studioso Joshua Kurlantzick, che per primo ha dedicato un saggio sulle modalità attraverso le quali Pechino ha costruito nel tempo la sua influenza globale ricorrendo a strumenti di potere soft, la Cina percepisca il soft power in termini differenti rispetto al concetto originario di Nye, ovvero come «qualsiasi cosa al di là dell’ambito militare e della sicurezza, includente non solo la cultura popolare e la diplomazia pubblica ma anche leve economiche e diplomatiche più coercitive come aiuti allo sviluppo, investimenti e la partecipazione a consessi multilaterali». In altre parole, la Cina considera espressione di potere soft molti degli strumenti che “tradizionalmente” sono ritenuti parte integrante dell’hard power e su queste leve ha puntato fin dagli anni Novanta per contrastare la percezione generalizzata nel mondo occidentale che la considerava come una minaccia e per proporre la visione alternativa di un Paese in ascesa impegnato in uno sviluppo pacifico. Non a caso, l’avvio di una nuova strategia soft della diplomazia cinese, e la diffusione sistematica del concetto di soft power, coincidono con l’adozione di una serie di misure economiche mirate a sostenere i Paesi vicini colpiti dalla crisi finanziaria asiatica del 1997: oltre ad attivarsi prontamente per fornire assistenza economica alle nazioni colpite, il governo cinese si è impegnato con forza nella stabilizzazione della propria moneta, scartando l’ipotesi di una sua possibile svalutazione che avrebbe avvantaggiato le esportazioni del Paese, guadagnandosi la riconoscenza della regione per il suo “comportamento responsabile”.

Dai primi anni Duemila, il soft power è diventato oggetto di ricerca e analisi di pletore di esperti e studiosi delle più rinomate università del Paese, centri di ricerca di primo piano, nonché di branche rilevanti del governo cinese, e successivamente fatto proprio dai massimi vertici dello Stato e del partito, come rivela il rapporto di Hu Jintao al XVII Congresso del PCC (2007), nel quale, per la prima volta il presidente cinese fece esplicitamente cenno al soft power quale strumento per permettere al Paese il raggiungimento dell’obiettivo della costruzione di una società moderatamente prospera. Lo stesso premier Wen Jiabao, in un articolo pubblicato sul Renmin ribao nel febbraio 2007, aveva fatto riferimento all’importanza di promuovere un’immagine più positiva del Paese affidandosi a strumenti di potere soft, mettendo l’accento soprattutto sugli scambi culturali definiti come «un ponte che unisce i cuori e le menti dei popoli di tutti i Paesi». L’attenzione nei confronti di tale concetto emerse proprio a seguito della presa di coscienza da parte di studiosi e politologi che le risorse di hard power, da sole, non sarebbero state sufficienti per raggiungere gli obiettivi strategici regionali e globali di lungo periodo, identificati nell’ascesa della Cina da potenza regionale a potenza globale. A conferma di tale punto di vista portavano l’esempio di molte grandi potenze del passato la cui ascesa non era dipesa soltanto dal potere coercitivo, ma anche dall’attrattiva dei loro valori e delle loro istituzioni e dalla loro influenza culturale, come dimostrato dal documentario dedicato per l’appunto all’Ascesa delle grandi potenze (Daguo jueqi) trasmesso dalla televisione di Stato cinese (CCTV, China Central TeleVision) nel 2006.

In realtà, se ci si riferisce alla definizione che ha dato Nye di soft power, secondo la quale molto risiede nell’attrattiva culturale di un Paese e nei suoi valori, bisogna riconoscere che i cinesi hanno avuto storicamente un sistema ben radicato per promuovere questo tipo di influenza. Lo stesso Impero di mezzo (Zhongguo) costituiva un paradigma culturale e ideologico all’interno del cosiddetto “ordine mondiale cinese” (sinocentrismo, zhongxin zhuyi) che considerava la Cina come il “centro” della sola civiltà conosciuta e obbligava i suoi vicini a riconoscerne la superiorità pagando il tributo all’imperatore. Nel fare ciò, si serviva dello strumento della persuasione al fine di portare i “barbari” (non-cinesi) dentro l’Impero, senza stabilire un diretto controllo sui loro territori, per quanto si debba riconoscere come il sinocentrismo fosse basato anche sulla forza militare.

Il tema della diffusione culturale è in cima all’agenda politica del governo comunista oramai da diversi decenni e costituisce un modo per accompagnare e collegare la forza del successo economico con la promozione dell’immagine di un Paese responsabile che non rappresenta alcuna minaccia, in linea con una chiara indicazione politica già espressa da Hu Jintao e rilanciata nel 2014 da Xi Jinping come esigenza di «produrre un bella narrativa della Cina e spiegare meglio il messaggio della Cina al mondo».

Un importante contributo su questo fronte è stato fornito dalla costituzione di una rete mondiale di Istituti Confucio (Kongzi xueyuan), ovvero centri per l’insegnamento della lingua e della cultura cinese che Pechino auspica possano diventare strumenti effettivi della diplomazia culturale della RPC, analogamente alle esperienze di molti altri Paesi. Stando ai dati forniti dal XII Congresso mondiale degli Istituti Confucio, alla fine del 2017, la rete comprendeva 525 Istituti e 1113 Classi Confucio, distribuiti in ben 146 Stati e regioni di ogni angolo del pianeta. Altrettanto rilevante è stata l’acquisizione, da parte cinese, di importanti partecipazioni delle case di produzione cinematografiche hollywoodiane, nonché dei media tradizionali, anche all’interno degli Stati Uniti, come pure la trasformazione in senso globale della televisione di Stato che, dopo essere stata ribattezzata China global television network, nel dicembre del 2016, ha iniziato a trasmettere 6 canali in lingua straniera, di cui 2 in inglese. Al contempo, Pechino ha investito risorse rilevanti sia nell’attrazione di studenti stranieri in Cina – secondo l’Institute of international education, nel 2017 la RPC figurava al terzo posto nella classifica mondiale delle più popolari mete di studio – sia nella cooperazione scientifica e culturale con il mondo accademico all’estero.

In un arco di tempo relativamente breve, dunque, la RPC ha compiuto alcuni passi importanti nell’esercizio responsabile del suo soft power – sostenendo la crescita economica in contesti specifici con incentivi economici, prestiti e investimenti, aderendo ad istituzioni multilaterali, partecipando a numerose operazioni di pace, accettando l’invito della comunità internazionale ad assumersi delle responsabilità nella gestione della governance mondiale – riuscendo ad accumulare una grande influenza a livello mondiale, sebbene la natura autoritaria del suo potere, la crescente assertività in specifici contesti e la percepita aggressività di alcune delle sue politiche costituiscano dei limiti evidenti alla sua definitiva affermazione.

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