Il Regno Unito si ritrova, a due giorni dal voto per le elezioni generali, a confrontarsi con quell’imperativo morale e strategico del quale s’era già intuita la portata dopo l’attentato di Manchester: governare la paura. Per la seconda volta in pochissimi giorni la campagna elettorale è stata segnata da un attentato terroristico dal bilancio sanguinoso. Ancora una volta, e ancor più a ridosso dell’imminente giornata di votazioni, s’aggrovigliano due fatti: gli esiti di un atto mortale di violenza e i prodromi di un atto vitale di politica. Terrorismo ed elezioni oggi coesistono. Ma in questa coesistenza, ne siamo certi, è il primo che esaurisce la propria portata nel presente, nel momento in cui si è svolto, nell’attimo d’un lugubre gesto scellerato. La contesa elettorale, invece, continua verso le elezioni, il momento destinato a stabilire chi dovrà governare il Regno Unito nel futuro.

In effetti, osservato in questo contesto, il terrorismo sembra aver già prodotto un esito bensì paradossale: più viene usato, meno è efficace. Non solo le elezioni politiche saranno regolarmente celebrate ma gli attentati stessi sono stati riassorbiti politicamente all’interno del processo elettorale. Sono diventati, in altre parole, motivo d’argomentazione democratica su come affrontare anche questo problema, il problema della violenza terrorista. Come governare il fenomeno del terrorismo è diventato difatti uno dei temi di confronto tra Conservatori e Laburisti. I primi invocano oggi un concetto tradizionale, quello per cui è a destra che per antonomasia si colloca chi è in grado di garantire maggiore sicurezza ai cittadini. I secondi, invece, richiamano un fatto attuale, ossia che la responsabilità di garantire la sicurezza dei cittadini è di chi governa e, nel Regno Unito, da ormai un decennio governano i Conservatori. Così, la propulsione politica della retorica conservatrice sembra assai indebolita dalla realtà attuale.

Naturalmente, la sicurezza è stata e sarà il tema centrale di questa campagna elettorale che giunge alla tribolata fine. Si tratta, ognun lo vede, di un discorso assai più ampio del terrorismo. Esso riguarda anche, se non soprattutto, ciò che chiamiamo sicurezza sociale, o “welfare”. In quest’ambito la campagna elettorale di Theresa May, segnata da affermazioni impopolari e contraddittorie, sembra aver sensibilmente danneggiato le posizioni dei Conservatori (dati ancora oggi per vincenti). Viceversa, sfruttando abilmente gli spazi concessigli, Jeremy Corbyn ha potuto valorizzare la propria, presunta, credibilità di difensore dei più deboli, una formula sufficientemente vaga per attirare diffuso consenso eppure verosimile per chi è legittimato da una storia di militanza cristallina.

L’ultimo elemento di riflessione, prima del verdetto delle urne, riguarda proprio la questione politica che è all’origine della scelta di celebrare le prossime elezioni, ossia la Brexit. Rispetto al negoziato tra Regno Unito e Unione Europea, e al futuro britannico fuori dall’Unione, Corbyn ha saputo tracciare un percorso realistico e consonante con quello indicato da Bruxelles, esprimendo un certo grado di sicurezza su come governare il futuro del Regno Unito fuori dall’Unione. L’incertezza insita nello slogan del primo ministro May – «meglio nessun accordo che qualunque accordo» – è invece un oggettivo generatore d’insicurezza perché lascia indeterminato il futuro del Regno Unito in Europa e non risponde chiaramente all’interrogativo politico per eccellenza: che fare? Esso mostra, invece, la tipica posizione di chi, temendo di non poter cogliere i propri obiettivi, o sapendo di non poterli più raggiungere, mostra un senso di superiorità e forza tuttavia ambiguo: “mette le mani avanti”. Naturalmente, ciò potrebbe essere un ottimo viatico per chi non si pone troppe domande sul futuro della politica estera britannica – ossia la maggioranza degli elettori che hanno scelto Brexit. Tutto sta nel sapere se costoro credono ancora in ciò che hanno fatto o se, nel frattempo, si sono posti alcune domande.

In questo senso, e in molti altri, le elezioni di giovedì sono elezioni del “frattempo”. In effetti, dal giorno in cui queste elezioni sono state convocate la storia si è mossa troppo in fretta rispetto ai calcoli razionalistici di Theresa May. Talché la primo ministro è parsa sempre più insicura di sé stessa e delle proprie posizioni. Ha generato così un’ambigua sensazione di declino relativo sfruttato dagli sfidanti e, prima di tutti, dal capo del Partito laburista, che oggi pare in grado d’impedire la vittoria tory e persino d’ambire alla propria. Di certo, in una campagna elettorale marchiata a sangue dal problema della sicurezza, i Conservatori hanno perso essi stessi la propria sicurezza. Oggi non è per nulla scontato un risultato che garantisca loro l’anelata maggioranza assoluta, il loro scopo elettorale. In un momento democratico intossicato dalla violenza, l’imprevedibilità tipica della politica ha raggiunto lo zenit e nessuna previsione è davvero attendibile. Quel che si sa è che la storia è di nuovo in movimento.