13 gennaio 2022

Il triste autunno della Primavera sudanese

«Ho fatto tutto quanto era in mio potere per evitare che il Sudan sprofondasse nel caos e nella catastrofe». Con queste parole il primo ministro Abdalla Hamdok, a capo del Consiglio sovrano del Sudan dall’agosto del 2019, il 3 gennaio scorso ha sostanzialmente gettato la spugna dopo un tira e molla inquietante e un vortice di eventi e colpi di scena innescato lo scorso 25 ottobre, a seguito di un ennesimo colpo di Stato. Hamdok, prima arrestato e poi riabilitato da Abdel Fattah Abdelrahman Al-Burhan, il capo dell’esercito e leader dei golpisti, oltre che presidente de facto del Sudan dall’inizio dell’era del Consiglio di transizione, ha certificato il suo fallimento personale e quello delle forze politiche e militari che dall’accordo politico del 21 novembre, cercavano di dare vita a un governo ‘tecnico’ che permettesse al Paese di uscire dalla grave crisi istituzionale e socioeconomica in cui è sprofondato e lo traghettasse alle elezioni del 2023. «Non ci sono le premesse per procedere date le profonde scissioni tra le forze politiche e i componenti della transizione» ha concluso laconicamente, lasciando così i sudanesi senza guida nel momento probabilmente più delicato della sua brevissima storia democratica.

Il sogno di una democrazia, in un Paese segnato da una delle più crudeli e lunghe dittature della storia recente, sembra così a un passo dall’infrangersi.

La cosiddetta Primavera sudanese aveva acceso, nell’aprile 2019, speranze impensabili in Sudan e in tutto il mondo. Dopo mesi di proteste pacifiche, in gran parte condotte da ragazzi e donne, la popolazione civile riuscì a destituire il trentennale dittatore Omar al-Bashir, l’autocrate atteso dal giudizio dell’Aia per genocidio, crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Quando nell’agosto dello stesso anno, al termine di trattative estenuanti, fu chiaro a tutti, a partire dai militari eterni detentori di ogni potere in Sudan, che le cose sarebbero dovute cambiare radicalmente, venne affidato ad Hamdok un incarico pesante: divenire il capo di un governo di unità nazionale composto al 50% da civili e al 50% da militari dopo oltre trenta anni di durissimo regime e in un Paese ridotto allo stremo da guerre intestine (in Darfur, nel Kordofan, per citare le due più importanti) e da una lunghissima crisi socioeconomica.

Il colpo di Stato dell’ottobre scorso ha interrotto quel percorso virtuoso che, per quanto accidentato, teneva vive le aspettative di una delle poche primavere arabe con esiti parzialmente positivi e che, soprattutto, non si era trasformata in un rigido inverno fatto di conflitti e drammatiche instabilità. Alla base del golpe c’è il nervosismo che tra i militari cresceva in modo esponenziale all’avvicinarsi di una scadenza decisiva, quella del 17 novembre 2021, quando, secondo quanto vergato nell’accordo per il governo di transizione dell’agosto 2019, gli ufficiali avrebbero dovuto cedere la presidenza del Paese ai civili. Nessuno voleva lasciare del tutto il potere, ancora meno così in fretta. Il Putsch arriva puntuale proprio a meno di un mese della deadline e crea un corto circuito nella popolazione dividendola in due fazioni: quella sobillata da una propaganda anti-Hamdok che faceva leva su una situazione sociale ed economica caratterizzata da una gravissima recessione si schierava con i militari. La fazione pro-‘civili’, invece – la maggioranza – prendeva le difese del primo ministro Hamdok, nel frattempo posto agli arresti, e del governo di transizione. Il resto è cronaca serrata. Dopo aver mostrato per settimane il volto duro e aver ordinato la mano pesante sui dimostranti scesi in piazza in massa in ogni città – in meno di un mese saranno circa 45 i morti senza contare feriti e arrestati ‒ i golpisti annunciano di aver agito per «apportare alcune correzioni» e scelgono la via del compromesso. Il generale al-Burhan, che aveva faticato da subito a trovare alleati interni ed esterni, libera platealmente Hamdok e si dice pronto a ritornare alla casella 0 di un gioco dell’oca senza senso che ha avuto il solo risultato di precipitare il Paese in una situazione di maggiore instabilità e alimentare a dismisura il malcontento. Si arriva così alla fine dell’anno con i protagonisti politici estenuati da tentativi vani di mettere su un esecutivo da cui si sfilano tutti e dalla piazza che ormai disconosce lo stesso Hamdok, una volta eroe, e, in una rapida sequenza, ai primi del 2022 con le dimissioni del  primo ministro incaricato, le uccisioni brutali di altri manifestanti che non hanno mai smesso di riempire le strade e il timore che i molti vuoti lasciati, come da tradizione in Sudan, vengano riempiti dai militari in modo violento.

Se resta una speranza, lo si deve alla popolazione civile. Ha respirato due anni di parziale democrazia e non vuole tornare indietro. Al contrario, ora chiede la posta piena. Lo slogan degli ultimi tempi, dopo l’accordo del 21 novembre e l’annuncio da pare di al-Burhan sui militari che «si faranno da parte dopo le elezioni che si terranno nel 2023» è stato: «No compromise, no power-sharing» (nessun compromesso, nessuna condivisione di potere con i militari). Non gli basta più un governo solo per metà composto da civili, vuole la democrazia completa per la prima volta nella storia dall’indipendenza del 1955. Resta da capire se il fronte civile riuscirà a rimanere unito ‒ il 9 dicembre scorso, i Sudan’s Resistance Committees, tra i gruppi più rappresentativi, hanno annunciato la sostanziale scissione dalle FCC (Forces of Freedom and Change); se potrà imporsi con la sola forza della piazza ai militari e se sarà in grado di tenere a bada la riemersione di vecchi potentati tra i quali, neanche a dirlo, c’è quello del mai domo Omar al-Bashir, il vecchio tiranno,  in carcere dal 2019, che non ha mai smesso di ordire trame e di suscitare vedove.

 

Immagine: Manifestazione pacifica a sostegno della mobilitazione contro la dittatura di al-Bashir in Sudan, Marsiglia, Francia (29 dicembre 2018). Crediti: GERARD BOTTINO / Shutterstock.com

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