«Yes. That’s the commitment we made». Sì, è l’impegno che abbiamo assunto.
A Tokyo, durante la conferenza stampa con il primo ministro giapponese Fumio Kishida, Joe Biden ha ribadito una posizione già espressa in precedenza, e forse troppo semplicisticamente derubricata a gaffe: se la situazione lo dovesse richiedere, e dunque se la Cina cercasse di prendere con la forza il controllo di Taiwan, gli Stati Uniti sarebbero pronti a un impegno militare diretto. Come prevedibile, e come già accaduto a fronte di analoga affermazione nell’ottobre del 2021, è arrivata immediata la precisazione della Casa Bianca: quelle parole non preludono ad alcun cambiamento della policy di Washington verso Taipei, tanto che lo stesso presidente ha voluto evidenziare l’assoluta continuità degli orientamenti statunitensi sulla questione. Gli USA restano dunque innanzitutto interessati a preservare la pace e la stabilità tra le due sponde dello stretto di Taiwan, al fine di impedire – ha dichiarato Biden – qualsiasi «cambiamento unilaterale dello status quo». E ancora, mantengono ferma la loro adesione alla One China policy, che riconosce – pur con distinte autorità di governo a reclamare la loro sovranità – l’esistenza di una sola Cina. Ciononostante, il richiamo a quel «commitment» appare ugualmente significativo, tanto da portare analisti e commentatori a interrogarsi sul futuro di quella «ambiguità strategica» che – in assenza di una chiara indicazione sul «che fare» in caso di inasprimento delle tensioni – ha esercitato finora una efficace funzione deterrente: da una parte distogliendo Pechino da propositi bellicosi; dall’altra disincentivando fughe in avanti di Taiwan sulla proclamazione della propria indipendenza. E appare ancor più significativo dopo l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, a cui peraltro Biden ha fatto esplicito riferimento in conferenza stampa per lanciare un chiaro messaggio alla Cina: per il presidente degli Stati Uniti infatti, le dure sanzioni imposte dall’Occidente contro Mosca hanno un senso che va ben oltre la stretta attualità del conflitto, tanto da dover essere supportate in vari modi anche a fronte di un eventuale riavvicinamento tra il Cremlino e Kiev. Questo perché – nell’ottica dell’inquilino della Casa Bianca – un loro ipotetico allentamento trasmetterebbe un segnale sbagliato alla Cina, che già oggi starebbe «giocando col fuoco» ma potrebbe a quel punto essere tentata dall’idea di ricorrere all’intervento militare a Taipei.
La replica dell’establishment di Pechino – che ritiene Taiwan parte inalienabile del territorio cinese – non si è fatta attendere: il portavoce del ministero degli Esteri Wang Wenbin ha subito manifestato «forte insoddisfazione» e «ferma opposizione» alle parole di Biden, sottolineando come la Cina non ammetta interferenze straniere in affari ritenuti «interni» e non sia disponibile a compromessi o concessioni su questioni riguardanti i suoi «interessi vitali». Di più, l’invito a Washington è ad astenersi da qualsiasi comunicazione che possa inviare un messaggio errato alle «forze separatiste», con il rischio di compromettere la pace presso lo Stretto di Taiwan e le relazioni sino-americane: questo perché la Cina è pronta ad «azioni risolute per tutelare la propria sovranità e i suoi interessi in materia di sicurezza».
Il riferimento di Biden alla questione taiwanese ha parzialmente distolto l’attenzione dal lancio ufficiale dell’Indo-Pacific Economic Framework for prosperity (IPEF), l’iniziativa attraverso la quale Washington – riservando particolare attenzione alle grandi sfide della competitività economica – punta a rafforzare la cooperazione con gli alleati e i partner regionali. Oltre agli Stati Uniti, parteciperanno inizialmente al programma l’Australia, il Brunei, la Corea del Sud, le Filippine, il Giappone, l’India, l’Indonesia, la Malaysia, la Nuova Zelanda, Singapore, la Thailandia e il Vietnam. Secondo quanto riportato dalla Casa Bianca, il framework si fonderà su quattro pilastri fondamentali: un’economia connessa, al fine di cogliere le migliori opportunità e affrontare i principali rischi dell’economia digitale; un’economia resiliente, attraverso interventi mirati e impegni precisi per prevenire pericolose interruzioni delle catene di approvvigionamento; un’economia pulita, da promuovere con adeguate politiche infrastrutturali ed energetiche; un’economia giusta, che si fondi su regimi fiscali equi e combatta le pratiche del riciclaggio di denaro e della corruzione.
L’efficacia dell’IPEF è ancora tutta da verificare, ma la segretaria al Commercio dell’amministrazione statunitense Gina Raimondo aveva già annunciato che il programma non avrebbe rispecchiato i canoni dell’accordo commerciale tradizionale. E proprio questo potrebbe rappresentare un limite non di poco conto. Come infatti rilevato in un commento del diplomatico Daniel Russel per il sito Vox, la strategia elaborata da Biden è estranea tanto alla cornice del Comprehensive and Progressive agreement for Trans-Pacific Partnership (CPTPP) – l’accordo commerciale siglato sulle ceneri della Trans-Pacific Partnership (TPP) e a cui la Cina ha chiesto di aderire – quanto all’accordo di libero scambio della Regional Comprehensive Economic Partnership (RCEP), di cui Pechino è invece già parte. In questa prospettiva – osserva Russel – l’auspicio dei Paesi del Sud-Est asiatico, che di queste iniziative sono parte integrante, sarebbe che Washington assumesse un ruolo di leadership, mettendo sul tavolo proposte concrete e in grado di apportare benefici immediatamente tangibili, come l’accesso agevolato per i prodotti della regione al mercato statunitense. Il rischio dunque è che senza un impegno forte sul fronte del commercio, il framework sia accolto tiepidamente da una parte non trascurabile degli Stati partecipanti, le cui economie – sottolineava sempre per Vox l’analista Michael Swaine – sono oramai sempre più integrate con quella cinese.
Il primo, grande obiettivo della visita di Joe Biden in Estremo Oriente – dal 20 al 24 maggio, con tappe in Corea del Sud e Giappone – è stato comunque raggiunto. Oramai da tempo, gli Stati Uniti hanno infatti declinato il riorientamento delle loro priorità di politica estera, nella consapevolezza – ulteriormente ribadita nel corso delle ultime settimane – che gran parte dei futuri equilibri globali si giocherà nell’Indo-Pacifico. Finora però, Washington non è mai riuscita a dispiegare pienamente la propria strategia nell’area, perché periodicamente richiamata a occuparsi – anche controvoglia – di altri scenari fortemente instabili, dal Nordafrica al Medio Oriente, dal pantano dell’Afghanistan fino all’Europa.
Con questa visita ufficiale – e ancor prima, accogliendo nella capitale il 12 e 13 maggio i leader dei Paesi ASEAN – Biden conferma dunque tutta la sua attenzione verso la regione, mandando un messaggio a Pechino: anche se occupati dal conflitto in corso in Ucraina, gli USA sono ben presenti nell’Indo-Pacifico. E hanno tutta l’intenzione di restarci.