Poche novità considerevoli, ma soprattutto un’unica grande conferma dalle elezioni legislative celebrate in Israele lunedì 2 marzo 2020. I cittadini dello Stato ebraico sono andati alle urne per la terza volta nel giro di un anno, dopo che le tornate elettorali del 9 aprile e del 17 settembre 2019 non hanno dato un governo al Paese. Le novità sono rappresentate da piccole ma rilevanti oscillazioni del consenso tra i partiti minori, di destra, di centro e di sinistra. Mentre la grande conferma ha un nome ed un cognome ben precisi: Benjamin Netanyahu, che con il suo Likud ha vinto la competizione elettorale, superando di tre seggi lo sfidante Benny Gantz, del partito di centro Kahol Lavan, arrivato primo nella precedente tornata elettorale. In termini numerici, il Likud è passato dai 35 seggi del voto del 9 aprile 2019, ai 32 delle elezioni di settembre scorso fino ai 36 del 2 marzo. Forte dell’appoggio dei partiti religiosi (Shas, Giudaismo unito nella Torah e Yamina), la coalizione di destra si aggiudica così 58 dei 120 seggi della Knesset, il Parlamento israeliano. Solo due seggi dall’ottenere la maggioranza parlamentare necessaria per governare. Al contrario, la preferenza degli elettori verso la coalizione centrista Kahol Lavan è passata dai 35 seggi di marzo 2019 ai 33 di settembre fino ai 32 del 2 marzo. Degno di nota il fatto che l’affluenza è stata più alta rispetto a settembre: 71% a fronte del 69,83% dell’ultima tornata elettorale.

Il dato politico che emerge in maniera chiara è che Netanyahu, da molti dato in svantaggio anche a causa delle sue beghe giudiziarie, ha dimostrato tutta la sua capacità di ricostituire e rendere granitico il proprio consenso. «Netanyahu ha vinto la battaglia della vita». Con queste parole titolava martedì 3 marzo il quotidiano locale Israel Hayom, dedicando un’analisi elettorale alla partita giocata dal leader del Likud. Considerato che Bibi ha ricoperto per la prima volta la carica di primo ministro dello Stato ebraico nel 1996, e che negli ultimi appuntamenti elettorali era dato da molti osservatori come agonizzante, non c’è dubbio che il risultato ottenuto alle urne rappresenti per lui non solo una soddisfazione per il presente, ma anche una garanzia per il futuro. Un futuro da protagonista, nonostante l’incognita del processo che lo vedrà in tribunale già il 17 marzo prossimo.

Altro dato interessante è la flessione nei consensi di Kahol Lavan e del suo leader Benny Gantz. Ex capo di stato maggiore, presentatosi alle elezioni di un anno fa come homo novus della politica israeliana, Gantz era riuscito a proporre efficacemente un soggetto politico all’insegna del centrismo, dell’unità nazionale e della responsabilità. Un’offerta politica che, i numeri parlano chiaro, aveva convinto molti cittadini di Israele, cannibalizzando lo spazio politico dei partiti riformisti tradizionali come il Labour e Meretz. Tuttavia, quella di Kahol Lavan potrebbe rivelarsi una siringa monouso. C’è da chiedersi, infatti, se e quanto la spinta propulsiva della novità portata da Gantz nello spettro politico israeliano possa reggere di fronte ad una perdita di consensi come quella registrata nell’ultima tornata elettorale. Di fronte a sé, il “volto nuovo” della politica locale ha un avversario potente e smaliziato come Netanyahu, che adesso vanta anche una posizione di forza nei suoi confronti.

A metà strada tra le conferme e le novità si attesta il partito Yisrael Beiteinu, guidato dall’ex ministro della Difesa Avigdor Lieberman. Con i suoi sette seggi, il partito laico di destra farà nuovamente da ago della bilancia per la formazione dell’esecutivo. Mentre ancora veniva completato lo spoglio delle schede, Lieberman ha dichiarato che il suo partito «farà di tutto per evitare un’altra sessione elettorale». È difficile capire se il messaggio fosse rivolto a Netanyahu, dato che l’ex ministro della Difesa aveva di fatto rotto con la coalizione del Likud per le divergenze con i partiti ultraortodossi sullo svolgimento del servizio militare. Alle elezioni di settembre, poi, Yisrael Beiteinu aveva optato per la formula “sì con Likud ma senza Bibi”, aprendo la strada ad un governo di salute nazionale mai varato. La novità sta nel fatto che anche il partito di Lieberman ha registrato un esiguo ma interessante calo nei consensi. Si trattasse di un trend, e non di un isolato momento di flessione, questo significherebbe che Yisrael Beiteinu, al pari di Kahol Lavan, risulterebbe il partito con meno interesse ad una quarta tornata elettorale. Un elemento tale, forse, da sbloccare la formazione del governo.

Infine, ma non meno importante, si registra una crescita dei consensi della Lista comune, una coalizione politica formata da partiti che rappresentano gli arabo-israeliani. Forte del suo giovane e rampante leader, il quarantacinquenne Ayman Odeh, la Lista ha ottenuto 15 seggi, 2 in più rispetto alle precedenti elezioni. Questa formazione era nata nel 2019 dall’idea storica di formare governi di coalizione con partiti di sinistra, in modo da scongiurare l’ennesimo governo Netanyahu.  Al solido consenso raggiunto dalla Lista ha probabilmente contribuito anche “l’accordo del secolo” per la pace tra Israele e Palestina, reso noto a Washington nel mese di gennaio. Il piano statunitense, oltre ad aver dato un assist elettorale non trascurabile a Netanyahu, contiene anche un punto controverso che riguarda i cittadini arabi di Israele. Stando al “deal of the century”, infatti, il cosiddetto “triangolo arabo”, il territorio dello Stato ebraico dove la popolazione araba rappresenta la stragrande maggioranza dei residenti, andrebbe “ceduto” al futuro Stato di Palestina. Una disposizione che Odeh e gli arabi di Israele, che costituiscono un blocco elettorale notevole, non hanno visto di buon occhio. Non è da escludere, pertanto, che il piano di Donald Trump abbia favorito un ricompattamento del voto arabo, rendendo più alta anche l’affluenza. D’altro canto Odeh ha portato avanti una campagna elettorale ambiziosa, cercando consensi anche tra l’elettorato ebraico (ad esempio promettendo l’esenzione dal servizio militare agli ebrei ultraortodossi). Inoltre, qualora si formasse uno storico governo Likud-Kahol Lavan-Yisrael Beitenu (senza Bibi?), Odeh otterrebbe lo status di capo dell’opposizione. La legge israeliana prevede che questa figura, un ruolo abbastanza istituzionalizzato, abbia tra gli altri compiti quello di vigilare su alcuni dossier dei servizi di sicurezza e di intelligence. Un po’ come avviene in Italia con il Copasir, il cui presidente viene eletto tra i componenti appartenenti ai gruppi parlamentari dell’opposizione.

Gli scenari che si aprono a questo punto sono molteplici. Da una parte, la coalizione di destra guidata da Netanyahu non ha i numeri per governare, ma c’è da aspettarsi che il presidente della Repubblica Reuven Rivlin dia a Bibi il primo incarico esplorativo per cercare una maggioranza parlamentare. I media locali riferiscono che, dietro le quinte, il premier in carica e i suoi alleati stanno già facendo scouting tra le fila di Kahol Lavan per convincere due o tre parlamentari a passare dall’altra parte della barricata abbandonando Gantz. Quest’ultimo ha confermato che il suo partito sta lavorando per ottenere la maggioranza a sostegno di una legge che impedirebbe a un cittadino con pendenze penali, come Netanyahu, di svolgere la funzione di primo ministro. Il leader di Kahol Lavan aveva proposto una legge simile dopo le elezioni di settembre 2019, ma essa era stata affossata da Yisrael Beitenu, il partito di Lieberman. Fonti politiche hanno riferito al quotidiano The Times of Israel che questa volta Lieberman potrebbe supportare Gantz nell’impresa, sbarrando la strada a Netanyahu per via giudiziaria. Se questo significasse anche un’alleanza politica tra i due, un’eventuale coalizione tra Gantz (e alleati) e Lieberman e l’appoggio della Lista araba avrebbe i 62 seggi sufficienti per governare.

L’esito di questo confronto dipenderà dalla capacità di Lieberman e Gantz di tenersi stretti i peones corteggiati da Netanyahu in queste ore. Bibi, dal canto suo, continua a giocare la sua partita in attacco. Parlando agli alleati della destra, utilizzando la consueta lavagnetta, il premier in carica ha dichiarato di avere “la maggioranza sionista”. «Il campo nazionale sionista vanta 58 seggi – ha dichiarato Bibi – mentre il campo sionista di sinistra 47». Un numero che include Yisrael Beitenu, ma non la Lista di Odeh coi suoi 15 seggi, in quanto partito non sionista. «La Lista unita, che attacca i nostri soldati e si oppone allo Stato di Israele, non fa parte dell’equazione», ha precisato Netanyahu. Odeh ha risposto per le rime tramite un tweet, affermando che Bibi «non saprebbe cos’è la democrazia neanche se la democrazia gli impedisse di formare una coalizione per tre volte». Il riferimento al numero tre riguarda sia le elezioni legislative tenutesi in Israele nel giro di un anno, sia i capi di imputazione di cui è accusato il leader del Likud. Il “Caso 4000” vede il premier accusato di aver preso decisioni normative a beneficio di Shaul Elovitch, allora azionista di maggioranza del gruppo di telecomunicazioni Bezeq, in cambio di una copertura favorevole sul sito di notizie Walla. Nel "Caso 1000" l’accusa sostiene che Netanyahu e sua moglie avrebbero illecitamente ricevuto doni (champagne e sigari) da Arnon Milchan, un produttore di Hollywood, e dall’imprenditore miliardario James Packer. Infine, nel “Caso 2000” Netanyahu risponde all’accusa di aver cercato di negoziare un accordo con Arnon Mozes, proprietario del quotidiano israeliano Yedioth Ahronoth, per una migliore copertura mediatica in cambio di una riforma di legge che avrebbe ostacolato la crescita del quotidiano concorrente Israel Hayom. Sarà dunque la storia dei prossimi giorni e dei prossimi mesi a dire se la lunga, controversa e densa esperienza politica di Bibi si chiuderà in Parlamento o in tribunale.

Immagine: Benjamin Netanyahu, Tel Aviv, Israele (14 agosto 2019). Crediti: Roman Yanushevsky / Shutterstock.com

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