16 agosto 2022

L’Afghanistan a un anno dal ritiro

A un anno dal ritiro delle forze occidentali da Kabul e dal ritorno al potere dei Talebani è possibile tracciare un bilancio delle conseguenze di quegli avvenimenti. Appare evidente che in Afghanistan non sono state rispettate le promesse inclusive dei Talebani che stanno invece imponendo nel Paese in modo sistematico un’interpretazione estremamente rigida della sharia; sembra assente ogni forma di dialettica democratica e soprattutto i diritti delle donne vengono regolarmente calpestati. Molto difficile per le afghane essere autorizzate a lavorare fuori casa, in pubblico è obbligatorio coprire il volto e per i viaggi più lunghi anche all’interno del Paese è necessario un accompagnatore maschio.

Escluse dalla politica e dall’istruzione superiore, le donne si trovano davanti ostacoli enormi nel far sentire la loro voce e rivendicare diritti. Con il trascorrere dei mesi, la pressione fondamentalista è sembrata accentuarsi; a maggio sono state emanate dal ministero per la Promozione della virtù e per la prevenzione del vizio (che ha sostituito nel settembre del 2021 il ministero per gli Affari femminili) nuove disposizioni sull’uso del burqa, l’abito tradizionale che copre completamente il corpo, compresa la testa, in pubblico; da allora anche le conduttrici televisive sono andate in onda con il volto coperto. Misure repressive sono previste per le donne e per i loro tutori maschi qualora non vengano rispettate le norme in materia di abbigliamento, in particolar modo da dipendenti pubbliche; anche l’abitudine di indossare veli colorati non è più tollerata. Queste restrizioni stanno avvenendo senza suscitare una forte reazione da parte dell’opinione pubblica internazionale.

Ma tra gli impegni presi dai Talebani c’era anche quello a evitare ogni forma di sostegno, anche indiretto, al terrorismo internazionale. Joe Biden lo aveva ribadito l’anno scorso, commentando e giustificando il ritiro degli Stati Uniti dal Paese: l’obiettivo in Afghanistan era «impedire altri attacchi terroristici sul territorio statunitense», mentre la ricostruzione del Paese non è mai stato lo scopo della missione. Quando furono firmati gli accordi di Doha tra Stati Uniti e Talebani l’intento principale era impedire che i gruppi terroristici usassero l’Afghanistan come una piattaforma per lanciare attacchi all’estero, come era avvenuto in occasione dell’11 settembre 2001. Ed è quindi coerente con questa impostazione che sia la presenza di al-Qaida sul territorio afghano a riportare la tensione nelle relazioni fra Stati Uniti e Afghanistan, non la questione della democrazia e dei diritti delle donne.

L’uccisione di Ayman al-Zawahiri, dal 2011 leader di al-Qaida, avvenuta nelle prime ore di domenica 31 luglio, a Kabul, in un’operazione condotta dalla CIA, evidenzia che probabilmente anche in questo campo i Talebani non sono riusciti a mantenere le promesse o non hanno voluto mantenerle. Questa azione è stata considerata un vero successo operativo per gli Stati Uniti; con il supporto di un drone sono stati lanciati due missili Hellfire che hanno colpito Ayman al-Zawahiri mentre era sul balcone della casa dove risiedeva con la sua famiglia, senza causare vittime civili. La priorità per gli Stati Uniti, per quanto riguarda l’Afghanistan, sono il contrasto al terrorismo e la sicurezza dei propri cittadini. L’impressione diffusa è che la lotta per i diritti civili in Afghanistan possa contare, in questo momento, su un tiepida attenzione dell’opinione pubblica internazionale, il cui sguardo tende inevitabilmente a rivolgersi altrove.

 

Immagine: Donne afghane in fila al punto di distribuzione del Programma alimentare mondiale, Herat, Afghanistan (29 giugno 2012). Crediti: Photo ID 519929. 05/07/2012. Herat, Afghanistan. UN Photo/Eric Kanalstein. www.unmultimedia.org/photo [Attribution-NonCommercial-NoDerivs 2.0 Generic (CC BY-NC-ND 2.0)], attraverso www.flickr.com