Le dinamiche socio-economiche e socio-politiche che hanno costituito l’humus fertile per la fioritura della “primavere arabe” (l’uso del plurale vista la profonda eterogeneità dei processi ancora in corso appare opportuno), trovano la loro ragion d’essere nella situazione nazionale dei Paesi coinvolti.  Il costante aumento dei prezzi dei beni di prima necessità, la corruzione diffusa negli elefantiaci apparati burocratici di regime e lo stridente contrasto fra l’opulenza delle oligarchie al potere e la drammatica povertà di fasce sempre più ampie della popolazione, hanno infiammato gli animi ed innescato le rivoluzioni, producendo in poche settimane il rovesciamento delle pluridecennali dittature monarchico-presidenziali di Tunisia ed Egitto.
I radicali mutamenti interni che hanno interessato la regione nordafricana hanno tuttavia rapidamente superato i confini nazionali per proiettarsi – quanto meno sotto due profili – in una dimensione macrogeopolitica globale. In primo luogo, perché i pollini della rivoluzione hanno travolto la vicina Libia del colonnello Gheddafi (dove c’è stata una vera e propria guerra civile) per poi varcare il Canale di Suez e sprigionarsi in Medio oriente; in seconda istanza perché lo status quo geopolitico di una delle regioni più “calde” del mondo è stato sensibilmente alterato, cogliendo impreparate le diplomazie internazionali.
Particolare attenzione merita in questo articolato scenario l’Egitto, punto di congiunzione fra Maghreb e Medio oriente e storicamente al centro degli equilibri regionali.
Il tardivo ma risoluto invito del presidente statunitense Obama a Mubarak ad “ascoltare il grido del suo popolo e trarne le conseguenze”, lasciava in realtà trasparire tutta la tensione della Casa Bianca, da una parte affascinata dal furor dei manifestanti improvvisamente decisi a riappropriarsi del loro destino, ma dall’altra titubante nello sponsorizzare apertamente la caduta di un regime amico nel cuore del “grande Medio oriente” e per di più alle porte di Israele.
Il carattere marcatamente destrutturato e frammentato dell’offerta politica post-Mubarak, al netto del periodo di transizione presieduto dalla giunta militare (lo Scaf) e durato più di un anno, lasciava presagire che la vera sfida per il controllo del potere si sarebbe circoscritta alle uniche forze con una base di consenso già consolidata: le incrostazioni del regime e il variegato panorama dei soggetti islamisti, in particolare la Fratellanza musulmana. Le elezioni presidenziali di maggio-giugno 2012 hanno confermato questo quadro: al primo turno si è verificata una prevedibile atomizzazione delle preferenze del corpo elettorale, che si sono disperse in rivoli di consenso verso i vari candidati ( in cinque hanno superato il 10% dei voti), ma al ballottaggio sono arrivati l’esponente del partito “Giustizia e Libertà” diretta emanazione dei Fratelli musulmani e l’ultimo Primo ministro dell’era Mubarak. E alla fine, per meno di un milione di voti, la vittoria è andata al candidato della Fratellanza Mohamed Mursi, primo presidente non militare dell’Egitto repubblicano.
In questi ultimi mesi, il nuovo corso politico della terra dei faraoni è stato costantemente monitorato. Non è un mistero che Israele abbia guardato con una certa apprensione alla rivoluzione dei giovani di Piazza Tahrir e ai suoi successivi sviluppi, nella convinzione che le ottimistiche previsioni dei cantori della “primavera egiziana” come alba di una nuova stagione democratica, si sarebbero presto scontrate con una realtà molto diversa e geopoliticamente pericolosa per l’Occidente.
Oggi si può dire che il tanto temuto spostamento dell’asse diplomatico egiziano verso posizioni anti-israeliane e anti-occidentali non si è verificato, per lo meno non in maniera evidente. Se un parziale slittamento c’è stato, si è trattato più di un riposizionamento retorico-strategico che effettivo, dovuto alla necessità di liberarsi della fama di Stato troppo sbilanciato verso Gerusalemme e Washington che accompagna l’Egitto dai tempi degli Accordi di Camp David con Israele nel 1978 e si è rafforzata durante gli anni del regime di Mubarak.
Il presidente Mursi si trova fra due fuochi. Una parte della Fratellanza musulmana è costituita da uomini estremamente pragmatici ed intelligenti, che ben comprendono le ricadute di un eventuale smantellamento dell’architrave diplomatico di Camp David e di un ipotetico allontanamento dagli Stati Uniti. Qualsiasi manovra che si presti ad essere interpretata come ostile verso Israele, porterebbe Washington a chiudere i rubinetti degli aiuti economici destinati al Cairo e soprattutto a finanziare il suo esercito (1,3 miliardi di dollari all’anno), cosa che l’Egitto non può permettersi. Molto difficile sarebbe inoltre per il Cairo beneficiare dei 4,8 miliardi di dollari previsti dal Fondo Monetario Internazionale, istituzione nella quale gli Usa continuano ad avere un certo peso.
Senza contare che, in un eventuale scontro fra gli eserciti egiziano ed israeliano, ci sono pochi dubbi su chi avrebbe la meglio.
Esistono però anche segmenti della Fratellanza decisamente più imbevuti di ideologia, convinti dell’obbligo quasi morale di una rottura con Israele per abbracciare in toto la causa palestinese, in particolare a Gaza dove opera Hamas che proprio dai Fratelli musulmani trae origine.
La nuova classe politica al potere in Egitto ha voluto rassicurare l’Occidente sul pieno rispetto degli accordi internazionali sottoscritti in passato, ma la Fratellanza non di rado ha parlato di una necessaria ridiscussione di alcuni punti dell’Accordo di pace con Israele sottoscritto un anno dopo Camp David, su cui una parte dei delicati equilibri medio orientali si fonda.
Ciò che al momento traspare è una rinnovata voglia dell’Egitto di ricollocarsi sulla scena internazionale come attore pivotale nella partita geopolitica del Medio oriente. Mursi è stato il primo leader egiziano a visitare l’Iran dai tempi della rivoluzione khomeinista del 1979, in occasione del vertice dei “non allineati”, allarmando le petromonarchie della regione del Golfo che sono in prima linea contro Teheran e guardano con sospetto e timore per la stabilità dei loro regimi all’ascesa della Fratellanza in Egitto. Il presidente egiziano ha comunque rassicurato sceicchi ed emiri: il Cairo non ha intenzione di esportare la rivoluzione al di fuori dei suoi confini; anche perché i petrodollari promessi dai sovrani dell’area farebbero molto comodo alle casse egiziane.
L’Egitto partecipa inoltre al gruppo di contatto sulla Siria con Iran (maggiore sostenitore di Assad nella regione), Turchia ed Arabia Saudita (che supportano i ribelli), anche se per ora non sono stati raggiunti risultati degni di sottolineatura per fermare la guerra civile a Damasco.
Positiva è stata invece la mediazione egiziana per la negoziazione del cessate il fuoco fra Israele e Gaza lo scorso novembre. Mursi ha adottato un approccio pragmaticamente realista senza con questo rinunciare a qualche piccolo sconfinamento nel campo della retorica populista, ottenendo un ritorno d’immagine significativo. L’Occidente ha infatti apprezzato gli sforzi profusi dal Capo dello Stato egiziano per la cessazione delle ostilità, come dimostrato dal plauso di Barack Obama; e Mursi è riuscito ad accreditarsi come difensore della causa palestinese nei primi giorni degli scontri, annunciando che l’Egitto non avrebbe mai lasciato Gaza sola e persino richiamando in patria il suo ambasciatore in Israele in risposta ai raid di Tsahal sulla Striscia.
In un contesto sempre più fluido, in cui Turchia ed Iran non negano le loro grandi aspirazioni regionali, l’Arabia Saudita cerca di mantenere il suo status geopolitico e il Qatar si rivela sempre più dinamico, l’Egitto ha dimostrato di potersi proporre come perno diplomatico nei complessi equilibri medio orientali, ma le sue possibilità di successo come attore regionale (fra i tanti) di riferimento sembrano oggi legate a doppio filo alle risposte che il Cairo saprà innanzitutto dare nel processo di stabilizzazione interna.
Le proteste di Tahrir a dicembre del 2012 contro il referendum sulla nuova Costituzione e i decreti dal sapore neofaraonico di Mursi, a cui hanno fatto da contraltare le manifestazioni a sostegno del presidente; sono la fotografia di un Paese ancora diviso e in fermento.
Sono la crisi economica e la stabilità politica i grandi problemi con cui l’Egitto è chiamato oggi a confrontarsi, e sarà il modo in cui il Paese riuscirà a plasmare se stesso che influenzerà profondamente ciò che esso sarà sulla scena internazionale.

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