A 28 mesi dal referendum che ha sancito la volontà britannica di lasciare l’Unione Europea, finalmente il governo di Theresa May e Michel Barnier ha pubblicato le quasi 600 pagine del Trattato che definirà le future relazioni tra Regno Unito e Bruxelles.

Il testo è decisamente complesso e distingue tra una fase di transizione (fino al 2020, ma estensibile su richiesta delle due parti) in cui Londra continuerà a rispettare tutti gli obblighi giuridici e finanziari europei, seppure senza più avere rappresentanza nelle istituzioni, e un momento successivo in cui il “divorzio” sarà sancito definitivamente con un nuovo accordo commerciale. Nella pratica i problemi più complessi (come la definizione di un eventuale hard border in Irlanda) sono stati rinviati a data da destinarsi, ma, in ogni caso, Theresa May – che ogni giorno perde un pezzo di governo tra dimissioni, richieste di sfiducia e bordate dai backbencher conservatori – è stata costretta a cedere su tutta la linea, accettando addirittura una competenza, seppur leggera, della Corte di giustizia europea sul territorio britannico (il testo dice precisamente che il Regno Unito si impegna a tenere in «due regard» le sentenze della Corte) e ammettendo a denti stretti che tutte le norme sugli aiuti di Stato non saranno modificate, sollevando peraltro le ire del leader laburista Jeremy Corbyn, da sempre favorevole a una rinazionalizzazione di alcuni settori industriali considerati strategici.

L’Unione Europea, dunque, pare aver vinto su tutta la linea, riuscendo sia a dimostrare la sua forza negoziale su un Regno Unito in crisi sia a mandare un messaggio molto, molto chiaro alle cancellerie sovraniste.

La realtà però è molto più complessa: Londra, anche se indebolita, è ancora uno dei principali centri finanziari mondiali, ha un seggio permanente al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e custodisce una delle infrastrutture più strategiche del mondo: il terminal dei cavi sottomarini in fibra ottica che collegano Europa e Stati Uniti.

Appare chiaro che, con queste premesse, un divorzio violento o non organizzato sembra pressoché impossibile: con tutta probabilità gli apparati americani, britannici ed europei stanno già lavorando per smussare gli angoli e uscire dalla retorica muscolare usata da entrambi i lati della Manica. Washington, nonostante la politica erratica del presidente Trump, non permetterà una frattura nel “fronte” occidentale, soprattutto in seno alla NATO e, se la storia recente ci insegna qualcosa, a un certo punto arriverà un messaggio simile a quello che – nel 2010 – salvò l’Italia di Silvio Berlusconi dal commissariamento per mano della troika.

A Bruxelles, tuttavia, il consenso generale sembra indirizzarsi verso quella che Keynes avrebbe definito una pace cartaginese, più interessata ad umiliare la controparte che a proporre le migliori basi possibili per la futura convivenza. Il problema è che, al netto delle turbolenze a Westminster, l’Unione Europea ha molto da guadagnare sul brevissimo periodo, ma rischia di perdere quasi tutto sul medio/lungo termine. Se il Regno Unito riuscirà a rimanere all’interno del mercato unico (magari con un accordo simile a quello norvegese o svizzero) la vecchia polemica sull’effettiva utilità del livello “politico” europeo avrebbe un nuovo, formidabile, argomento: se l’unico vero valore aggiunto della UE è quello commerciale, perché intestardirsi sui bizantinismi istituzionali?

Insomma, la partita della Brexit è tutto fuorché finita e occorre guardare oltre le piccole polemiche che avvolgono le prossime fasi negoziali. Dopotutto un vecchio detto inglese dice «c’è nebbia sulla Manica: l’Europa è isolata». Forse del vero c’è ancora.

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