La guerra in Ucraina costituisce un’evidente contestazione dell’ordine europeo e in una certa misura globale del dopo guerra fredda. Possiamo discutere della sua portata – se limitata all’Ucraina o più ambiziosa, quanto meno nelle intenzioni iniziali –, ma quello di Vladimir Putin appare a tutti gli effetti un progetto revisionista, atto a destabilizzare l’architettura securitaria, di suo fragile e contraddittoria, costruita nell’Europa del post-1991. Architettura NATO-centrica e a chiara guida statunitense, che il presidente russo da tempo definisce come ingiusta e minacciosa, oltre che umiliante, per la Russia e i suoi legittimi interessi di sicurezza. Temi, questi, ricorrenti nella retorica putiniana ed esplicitati con chiarezza anche nelle dottrine di sicurezza della Federazione Russa. «Cos’è un mondo unipolare?» chiese retoricamente Putin nel suo famoso intervento alla Conferenza di Monaco sulla sicurezza del febbraio 2007. «Per quanto si possa abbellire questo termine», si rispose, «si tratta di una situazione dove c’è un unico centro di autorità, un unico centro di forza, un unico centro di decisione. È un mondo in cui c’è un solo padrone, un solo sovrano». «Stiamo assistendo oggi a un iper-uso quasi illimitato della forza ‒ la forza militare ‒ nelle relazioni internazionali (...)», continuò Putin, con un evidente riferimento alle guerre statunitensi del XXI secolo, in Afghanistan e in Iraq. Guerre «unilaterali» e «illegittime», disse, e causa principale dell’instabilità globale. «Ci stanno portando nell’abisso di un conflitto dopo l’altro ... le soluzioni politiche stanno diventando impossibili» sostenne il presidente russo. La denuncia dell’unipolarismo e dell’unilateralismo si accompagnò nell’occasione a quella dell’espansione della NATO. Che secondo Putin nulla aveva a che fare «con la modernizzazione dell’alleanza o la sicurezza in Europa», ma costituiva invece «una provocazione» atta a minare «la fiducia reciproca» e rispetto alla quale era «legittimo chiedere» «contro chi» questo allargamento «fosse davvero diretto».
Questa ultima questione – l’allargamento della NATO e il suo legame con la guerra in Ucraina – ha attratto molta attenzione nei commenti delle ultime settimane e in queste stesse pagine ce ne siamo occupati in diverse occasioni. La discussione è stata spesso schiacciata in una polarità – interpretativa e di riflesso politica – che tende sia a produrre giudizi molto secchi sia a dare per scontato una conoscenza di processi e dinamiche che solo negli ultimi anni gli storici, con la loro cassetta degli attrezzi, hanno iniziato a studiare. Ecco quindi i giudizi inappellabili di chi ritiene che l’allargamento della NATO abbia costituito un’indubbia provocazione e minaccia alla sicurezza della Russia che aiuterebbe a spiegare la reazione ultima di Mosca e finanche l’aggressione all’Ucraina; e chi sostiene invece che la denuncia russa dell’allargamento sia del tutto strumentale, che la questione non era centrale negli anni Novanta e che anzi a Washington furono seriamente contemplati piani per l’inclusione della stessa Russia nell’Alleanza.
Gli storici, si diceva, stanno iniziando a produrre delle prime ricerche d’archivio sul tema. Qual è allora lo stato della ricerca? Quali sono le interpretazioni finora offerte (in un contesto destinato a essere contraddistinto da una ricca e vivace discussione storiografica)? E in che modo possiamo collegare questa discussione all’oggi, per cercare di meglio capire il processo che ci ha portato fin qui senza cadere nella tentazione, scientificamente inutile e politicamente dannosa, d’individuare rigide causalità e facili analogie; dando conto della inevitabile complessità, opacità e, anche, accidentalità di questo processo ? Schematizzando molto, possiamo provare a offrire sei considerazioni.
1. La prima è che il quadro documentario e, quindi, la ricostruzione fattuale sono ancora molto parziali e lacunosi. La gran parte delle fonti di cui disponiamo sono statunitensi, frutto soprattutto di una serie di richieste FOIA (Freedom of Information Act) fatte da alcuni degli studiosi e delle studiose che si occupano del tema, in taluni casi messi a disposizione di tutti da istituzioni come il National Security Archive o il Cold War International History Project al Woodrow Wilson Center. È un problema ricorrente in tanta storia internazionale contemporanea, quello della marcata asimmetria documentaria in virtù della quale processi complessi a cui partecipano una pluralità di soggetti sono (e debbono essere) studiati solo con le fonti di alcuni degli attori coinvolti, anche perché il processo di produzione, archiviazione e messa a disposizione di una fonte non è, né può essere, neutro e incontestabile. Ed è un problema per il momento particolarmente marcato per la storia dell’allargamento della NATO, dove rispetto ai documenti statunitensi pochi sono quelli europeo-occidentali e ancor meno quelli dei Paesi postsocialisti dell’Europa centro-orientale o della Russia. Con l’effetto, inevitabile ma problematico, di dover studiare le decisioni di questi ultimi attori, e di Mosca in particolare, per il tramite di diari, memorie o interviste o, appunto, attraverso le fonti (non neutre) generate da altri.
2. Come sempre in processi storici così complessi e che si dispiegano su un lasso di tempo medio-lungo, anche l’allargamento della NATO è avvenuto in forma accidentale, talora incoerente, con improvvise accelerazioni e brusche fermate. Per buona pace di chi individua sempre grandi disegni strategici e visioni geopolitiche onnicomprensive, è difficile ritrovarli nei documenti di cui disponiamo oggi. Nel caso specifico degli Stati Uniti, il soggetto appunto su cui più sappiamo, anche grazie all’ultimo libro della storica Mary Sarotte, è evidente come vi fossero divisioni profonde negli anni delle presidenze Bush e soprattutto Clinton, con un dipartimento di Stato e vari membri dell’amministrazione Clinton (soprattutto il consigliere per la sicurezza nazionale Anthony Lake) più favorevoli a usare la NATO, e la sua espansione, come pilastro di una nuova architettura di sicurezza in Europa, e il dipartimento della Difesa assai riluttante invece ad abbracciare la stessa linea, primariamente perché la priorità del Pentagono era rappresentata da un dialogo bilaterale con Mosca finalizzato al raggiungimento di nuovi accordi in materia di controllo e riduzione degli armamenti. Centrale, e spesso dimenticato, è inoltre stato l’intreccio tra politica estera e politica interna. Sarotte, in una delle parti più interessanti del suo studio, sottolinea, ad esempio, il forte impatto dello sconquasso elettorale del 1994, quando il Partito repubblicano ottenne uno straordinario successo e riconquistò la maggioranza alla Camera dei rappresentanti per la prima volta dal 1952. Gli anni successivi furono contraddistinti da una serie di baratti, inevitabili e funzionali a governare, tra la presidenza democratica di Clinton e il Congresso repubblicano. Quest’ultimo era popolato da falchi che spesso continuavano a considerare la Russia come la minaccia principale, o quanto meno potenziale, per la sicurezza statunitense. Clinton era in realtà sensibile alle sollecitazioni che venivano dal presidente russo Boris El′cin, e le concessioni che fece sulla NATO possono essere lette anche in questa chiave: come parte di questo scambio.
3. Nella fase terminale della sua esistenza, l’Unione Sovietica ebbe chiaramente e in più occasioni delle rassicurazioni statunitensi e tedesche sul fatto che la NATO non si sarebbe mai espansa al di là dei nuovi confini della Germania riunificata. Nel 1990-91 la discussione si concentrò primariamente sulla interdipendenza tra l’unificazione tedesca e l’Alleanza atlantica, con l’amministrazione Bush che nei suoi scambi con Mosca riaffermò con forza una delle funzioni originali dell’Alleanza, ovvero quella d’imbrigliare questa nuova, e più potente, Germania dentro una cornice di sicurezza atlantica che ne avrebbe in ultimo contenuto le eventuali ambizioni di potenza e autonomia. Dopo questa fase, e dopo l’implosione dell’Unione Sovietica, l’idea dell’allargamento fu messa in naftalina per almeno un paio di anni e iniziò infine a essere ridiscussa nel 1993-94.
4. E questo ci porta alla Russia postsovietica. Sarà forse stata una proiezione della sua storica propensione a sopravvalutare il proprio ruolo e le proprie possibilità sulla scena internazionale – a non riuscire a mettere in asse mezzi e fini, ponendosi quindi obiettivi irrealistici e finanche velleitari – ma gli studi di cui disponiamo, a partire da quelli di Radchenko, sottolineano come la Russia postsovietica credette possibile costruire un rapporto privilegiato e neobipolare con gli Stati Uniti. Una sorta di special relationship in virtù della quale, e in modo non dissimile dalla distensione di fine anni Sessanta-inizio anni Settanta, Mosca e Washington avrebbero co-gestito l’ordine post-guerra fredda e collaborato alla stabilità e alla sicurezza europea. Una posizione, questa, incongruente con le effettive risorse di potenza della Russia, con le posizioni degli alleati (presenti e futuri) degli USA in Europa e, come si è detto, con il contesto politico che andava delineandosi negli Stati Uniti. Fu El′cin in alcune occasioni a proporre un ingresso della Russia nella NATO per realizzare appunto questa ambizione. Gli USA e alcuni Paesi europeo-occidentali si dimostrarono sensibili alla necessità di non indebolire troppo il presidente russo e il suo gruppo di consiglieri liberali, e inventarono a tal scopo degli escamotage istituzionali più o meno cosmetici (si pensi soprattutto alla Partnership for Peace del 1994, con la quale si stabilivano forme di consultazione e cooperazione tra NATO e Paesi dell’ex blocco sovietico, inclusa la Russia). Escamotage incapaci però di soddisfare le richieste russe, come divenne sempre più evidente nel 1994-95.
5. Rispetto alla triplice denuncia putiniana dell’allargamento della NATO – come una decisione ingiusta, umiliante e pericolosa – solo le prime due categorie sembrano davvero applicarsi al post-guerra fredda. Da un punto di vista strettamente securitario, la NATO non poteva essere, né è oggi, una minaccia diretta per la sicurezza di Mosca, che dispone di una capacità deterrente preponderante ben evidenziata anche dall’attuale conflitto in Ucraina. Una inclusione della Russia nella NATO, lo si è detto, non era realistica per una varietà di ragioni a partire dal fatto – molto banale – che l’Alleanza atlantica è una struttura militare e difensiva federata da un egemone, che sono gli Stati Uniti. Per come è stato costruito ed è evoluto negli anni non è immaginabile un’alterazione di questo stato di cose e di questi rapporti di forza al suo interno. Il suo allargamento fu però vissuto e denunciato da Mosca come una pesante umiliazione; a più riprese El′cin sottolineò come esso avrebbe in ultimo avvantaggiato le forze di un nazionalismo radicale capace di cavalcare una narrazione vittimista e antiatlantica, come poi Putin avrebbe effettivamente fatto. Il presidente russo arrivò a chiedere di rallentare il processo, e mettervi temporaneamente la sordina, per non essere danneggiato alle presidenziali del 1996. Fu in una certa misura accontentato, ma il tutto avveniva in un contesto in cui i rivolgimenti democratici della Russia postsovietica, la forza del nuovo nazionalismo russo, le incoerenze e la fragilità di El′cin medesimo rendevano sempre meno credibile l’interlocutore e, per gli USA, sempre più allettante la prospettiva dell’allargamento. È molto probabile che abbia allora agito una sorta di spirale della sicurezza, nella quale la prospettiva dell’espansione della NATO irrigidiva Mosca e questo irrigidimento rafforzava la posizione dei sostenitori dell’allargamento a Washington.
6. Molto poco ancora sappiamo sull’azione diplomatica dei Paesi dell’Europa centro-orientale. Abbiamo sondaggi che evidenziano come maggioranze solide delle opinioni pubbliche dei primi a entrare nell’Alleanza – Polonia, Repubblica Ceca e Ungheria – fossero favorevoli. Abbiamo dichiarazioni pubbliche di leader politici che nello schierarsi su posizioni filoatlantiste trovarono un’evidente fonte di legittimazione interna e internazionale. Abbiamo documenti che mostrano sollecitazioni in tal senso di alcuni di questi leader (non è sorprendente che uno dei più attivi, e antirussi, fosse Lech Wałęsa che già nel 1993, incontrando Clinton in occasione del nuovo museo dell’Olocausto lo invitava a non lasciare la Polonia «indifesa» e senza «muscoli statunitensi» di fronte alla Russia). Molto semplicemente – e con un meccanismo che si era visto anche all’inizio della guerra fredda – agiva una tensione di fondo e una contraddizione in ultimo non risolubile: un asse russo-statunitense in Europa come quello desiderato a Mosca non era compatibile con l’integrazione politica e securitaria dell’Europa centro-orientale con gli USA e i loro alleati.
Molto altro ci sarebbe da dire, a partire dall’impatto delle guerre iugoslave, e della loro risoluzione, nell’alimentare a Washington il convincimento che solo allargando la NATO, e assegnandole nuove competenze e funzioni, si sarebbe potuto garantire stabilità e pace a un continente fragile ed esposto a conflitti latenti e questioni nazionali mai interamente risolte. Soprattutto, nel valutare natura, contraddizioni e fragilità del post-guerra fredda non si può non intrecciare la questione dell’allargamento della NATO con altre dinamiche e decisioni, su tutte quelle di alcuni momenti radicalmente unilaterali dell’azione statunitense – dall’abbandono dei trattati ABM (Anti Ballistic Missile) e INF all’intervento in Iraq alla campagna globale contro il terrorismo ‒ nel delegittimare le fondamenta e le norme dell’ordine internazionale dell’ultimo trentennio, e con esse la forza e credibilità ultima dell’egemonia statunitense.
Immagine: Le bandiere all’esterno della sede della NATO a Bruxelles, Belgio (11 luglio 2018). Crediti: Alexandros Michailidis / Shutterstock.com
© Istituto della Enciclopedia Italiana - Riproduzione riservata