In Italia oggi parte la “fase 2”. Negli USA si parla di come cambieranno l’economia e la società dall’inizio della pandemia, coinvolgendo nel dibattito figure di altissimo profilo. Sappiamo però che gli scenari tendono a prendere corpo in modalità molto diverse da quanto previsto, nei tempi e nei modi. Tanto vale, quindi, partire dai dati reali, ovvero le alleanze politiche ed economiche che stanno prendendo forma in queste settimane. Alleanze che nascono attorno alla progettazione del futuro: capiremo più in là chi saprà adattarsi meglio e avrà, effettivamente, più filo da tessere.

C’è un interessantissimo articolo di Naomi Klein che ci aiuta svolgere alcune considerazioni: il titolo ‒ bellissimo ‒ del suo intervento è Screen New Deal, e sta suscitando un discreto dibattito. Un long read che è stato pubblicato inizialmente sul magazine on-line The Intercept. È importante sottolineare la sede: The Intercept è un’avventura editoriale voluta da uno dei primi miliardari della storia dell’economia digitale, ovvero il fondatore di eBay Pierre Omydiar. Omydiar è un franco-iraniano figlio della diaspora persiana, trasferitosi negli USA da bambino e divenuto miliardario a 31 anni (è nato nel 1967) che, nel tempo, si è trasformato in filantropo e finanziatore di progetti, in particolare quelli editoriali. La caratteristica di Intercept è quella di promuovere un giornalismo investigativo aggressivo: nel corso degli anni gli scoop sono stati molti, spesso grazie all’acquisizione di documenti riservati delle agenzie di pubblica sicurezza (sulla politica di assassini mirati in Afghanistan, Yemen e Somalia dell’amministrazione Obama, sul Russiagate… ed è stata sede di pubblicazione di alcuni documenti di Edward Snowden).

Si fa presto, quindi, a immaginare il tono dell’articolo, già a partire dal sottotitolo: Under Cover of Mass Death, Andrew Cuomo Calls in the Billionaires to Build a High-Tech Dystopia (tradotto con libertà, “sotto una montagna di morti, Andrew Cuomo chiama a raccolta i miliardari per costruire una distopia hi-tech”). Il tono di denuncia si mantiene ‒ il 13 maggio, cinque giorni dopo la prima uscita su Intercept ‒ quando il quotidiano inglese The Guardian riprende integralmente il testo della Klein: Naomi Klein: How big tech plans to profit from the pandemic. Al di là dei toni e dello stile dei media ‒ mai come oggi è importante conoscere la storia dei vettori che trasportano notizie e commenti, vista la massa di interessi in gioco ‒ teniamo il punto non sull’obiettivo politico editoriale della Klein e di chi la ospita, ma su cosa ci racconta. Perché è importante? Perché la crisi potrebbe diventare più che un attivatore di grandi trasformazioni il boost della “grande accelerazione”. Cosa dice la Klein?

Il punto di partenza è la presenza di Eric Schmidt, ex CEO di Google, a un briefing giornaliero del governatore dello Stato di New York Andrew Cuomo: il governatore più colpito dalla pandemia rilancia con una visione del futuro del suo Stato ‒ solo del suo Stato? lecito avere dubbi sulle aspirazioni di Cuomo come candidato presidente, anche se non nel 2020 ‒ che coinvolge gli attori del Big tech in una strategia congiunta per il rilancio di New York che ricorda l’alleanza fra democratici e Silicon Valley durante l’amministrazione Obama. Un’alleanza fra pubblico e privato organica, e che guarda al 2030. Schmidt guiderà una commissione per pensare a un’evoluzione di economia e società dello Stato basata sull’integrazione permanente della tecnologia in ogni aspetto della vita quotidiana (in realtà il termine usato è “civic life”).

Primi punti in agenda? Potenziamento dell’infrastruttura della banda larga, istruzione a distanza, medicina digitale (“telehealth, remote learning, and broadband”). Il governatore, pochi giorni prima, aveva chiamato a bordo anche la famiglia Gates.

Dietro questo breve elenco c’è un mare magnum di proposte di investimento e modifiche del funzionamento del capitalismo americano, a partire dalla saldatura fra pubblico e privato nella definizione di strategie condivise di sviluppo e innovazione. Per la Klein emerge una dottrina dello “shock da pandemia” che definisce “Screen New Deal”, con i giorni di pandemia a fare da laboratorio di un nuovo “no-touch future”. Un futuro nel quale le nostre case non sono più il luogo del ritiro privato, ma, attraverso la connessione ultraveloce, sono le nostre scuole, lo studio del nostro dottore, le nostre palestre e, se avete problemi con la giustizia, il vostro penitenziario. Nello spazio esterno aumenterà la fruizione di servizi e distribuzione delle merci attraverso automobili senza conducenti e droni; nelle fabbriche i lavoratori indispensabili alla produzione: a tenere insieme il dentro e il fuori l’intelligenza artificiale.

Non prendiamo in considerazione una parte importante e necessaria del testo ‒ che parla di quanto questo modello potrebbe generare ulteriori disuguaglianze ‒ e non sottolineiamo quanto, come sua abitudine, Klein assolutizzi tendenze più che plausibili, tralasciando però quanto potrebbe restare anche del “vecchio mondo” (le tesi ultraforti si vendono meglio, anche nelle nicchie della saggistica liberal), ma viriamo su di un altro punto focale messo in evidenza dall’autrice: Schmidt è presidente anche del Defense Innovation Board, l’infrastruttura di esperti che affianca il dipartimento delle Difesa per definire l’applicazione dell’intelligenza artificiale nel campo militare; è presidente di una commissione equivalente presso il Congresso. Da lì si sviluppa una visione sulla competizione strategica, economica e tecnologica con la Cina di qui alla fine del decennio.

Questo ultimo punto è importantissimo, e chiude il cerchio: la competizione con la Cina e il rilancio economico nazionale ‒ il dentro e il fuori sono legati a triplo filo ‒ passerebbero, per Schmidt, attraverso l’accelerazione di un’alleanza strategica fra pubblico e privato, basata sullo sviluppo del digitale e dell’intelligenza artificiale. C’è chi ha definito la pandemia uno “Sputnik Moment”, ovvero un’occasione nella quale la Cina ha avuto capacità di reazione migliori degli USA, come avvenne nella prima parte della corsa allo spazio per l’Unione Sovietica. Chi parla di Sputnik Moment ha in testa, però, il dopo: ovvero chi vinse davvero la competizione globale.

Crediti immagine: Foto di Mohamed Hassan da Pixabay

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