2 aprile 2021

L’altra metà del muro: il femminismo messicano e la violenza di Stato

 

L’8 marzo 2021, nella Giornata internazionale della donna, una serie di violente manifestazioni ha scosso Città di Messico. Il clima di tensione aveva spinto il governo a erigere muri di sicurezza intorno al Palazzo Nazionale e mobilitare le forze militari. Obiettivo principale delle proteste erano appunto il governo del presidente Obrador, accusato di aver perseguito l’approccio autoritario, machista e repressivo dei suoi predecessori. Il tentativo di soffocare sul nascere la protesta che ha coinvolto migliaia di donne ha fatto sì che essa assumesse la forma di una guerriglia urbana risultante in più di ottanta feriti.

Per spiegare i motivi di un tale clima di tensione tra il movimento femminista e il governo di sinistra populista messicano occorre partire da lontano.

Nel 2018 Andrés Manuel López Obrador è stato eletto presidente del Messico; sindacalista di lunga data, si era proposto come candidato femminista e con un programma di ambiziosi obiettivi di giustizia sociale, tra i quali la riduzione delle disuguaglianze economiche e di genere, in particolar modo tra le classi più povere e la popolazione indigena. La sua vittoria è stata schiacciante: ha raccolto infatti il 53,19% dei voti, entrando in carica il 1º dicembre a capo del partito Movimiento Regeneración Nacional, fondato da lui stesso nel 2014 e meglio conosciuto con l’acronimo di Morena.

Il programma del partito apparteneva chiaramente alla tradizione del nazionalismo di sinistra; proprio per questo la decisione già ufficializzata nel dicembre 2017 di formare una coalizione di governo non solo con il Partido del Trabajo (PT), partito della sinistra anticapitalista messicana, ma anche con il Partido Encuentro Social (PES) espressione del conservatorismo della destra evangelica, aveva destato non poche preoccupazioni nei movimenti femministi. Tale coalizione, infatti, oltre a presagire parecchi compromessi sul piano delle riforme progressiste, in particolare su quelle inerenti i diritti riproduttivi, confermava anche il sempre maggior peso politico acquisito in Messico dal cristianesimo evangelico, accanto al più tradizionale cattolicesimo.

Un altro elemento critico individuato dai movimenti di piazza risiede nel fatto che il neopresidente non si è fatto scrupoli a disattendere immediatamente una delle principali promesse elargite al popolo in campagna elettorale: quella di demilitarizzare il Messico, proponendo un approccio innovativo rispetto alla “war on drugs” e al fallimentare sistema repressivo più che securitario dei suoi predecessori. In modo del tutto inaspettato, il Morena ha proposto invece la creazione di una guardia nazionale per unire polizia militare, Marina e polizia federale sotto un unico comando: quello militare appunto.

In un quadro già tinto di delusione e ira per l’inadempienza del governo, l’ondata scatenata dal #MeToo ha travolto anche il Messico, trovando terreno fertile. Già in precedenza i movimenti femministi e in particolare le donne indigene e appartenenti alle classi sociali più basse avevano iniziato a denunciare il costante aumento della violenza di genere: dal 2015 infatti i numeri ufficiali dei femminicidi non fanno che crescere, tanto da raggiungere quota 966 nel 2019; solo 4 anni prima le autorità locali ne avevano riconosciuti 411. Una cifra più che raddoppiata e che probabilmente neppure restituisce un’istantanea veritiera della realtà: le associazioni femministe ritengono che il numero ufficiale di femminicidi sia tenuto volutamente basso per cercare di nascondere il problema.

A fronte di questo stato di criticità, oltre a scegliere un governo formato per metà da donne, Obrador si è disinteressato nei fatti alla problematica della disparità di genere. Anzi, in questi anni il movimento femminista ha dovuto constatare che l’approccio securitario e di controllo militare sistematico ha prevedibilmente aumentato il grado di vulnerabilità e lo stato di insicurezza delle donne, soprattutto di quelle più povere e/o appartenenti a popolazioni indigene, vittime di violenza istituzionale. Al tempo stesso, le attiviste hanno denunciato l’inefficienza se non l’inutilità delle forze di polizia nel tutelare le donne contro la violenza maschile e patriarcale, fatto confermato dai numeri sopracitati.

In un recente report di Amnesty International tutti questi dati hanno avuto conferma: analizzando quanto successo in cinque manifestazioni indette in diversi Stati messicani nel corso del 2020 è emerso un panorama di diffuso e ingiustificato ricorso alla violenza da parte delle autorità nei confronti di proteste per lo più pacifiche. Non solo: nell’analisi vengono denunciati abusi fisici e verbali di stampo sessista, incarcerazioni sommarie di diverse attiviste e violenze sessuali ai danni persino di ragazze tra i 12 e i 17 anni di età.

Di fronte a tutto questo, Obrador ha eretto un vero e proprio muro nei confronti del movimento femminista: pur riconfermando l’impegno del suo governo a diminuire la disparità di genere, ha in più occasioni accusato le attiviste di farsi manipolare dai suoi avversari affermando di essere addirittura al corrente di infiltrazioni di oppositori politici nel movimento delle donne, il tutto senza fornire alcuna prova.

Infine, nei primi giorni di marzo 2021 il presidente ha scelto come candidato alla carica di governatore dello stato di Guerrero, nel Sud-Ovest del Paese, Félix Salgado Macedonio, un ex senatore considerato a lui molto vicino e accusato di stupro e violenza sessuale da almeno due donne.

E così torniamo all’8 marzo giorno in cui il muro difensivo di parole e inazione si concretizza in una vera e proprio barriera fisica, chiamata eufemisticamente dal governo “della pace”, simbolo piuttosto dell’incomunicabilità ormai impossibile da nascondere tra movimento del popolo delle donne e alte sfere del potere. E in questo frangente il movimento delle donne nuovamente rovescia la situazione a proprio vantaggio trasformando un elemento di contenimento e separazione in mezzo di espressione artistica: il muro viene infatti ricoperto di slogan, murales e dei nomi delle donne vittime di femminicidio in un chiaro intento di riappropriazione femminista dello spazio urbano. Alcuni gruppi provano anche ad abbatterlo, quel muro. E la repressione non si fa attendere.

Eppure, l’escalation di violenza culminata negli scontri dell’8 marzo era del tutto prevedibile. Si trattava infatti di un’attesa conseguenza delle politiche miopi e autoritarie del governo, incapace di rispondere concretamente ai problemi sistematici di violenza insiti nella società messicana e disinteressato a smantellare almeno in parte il sistema patriarcale vigente.

Il presidente Obrador continuando a sbandierare la scelta di ministre per il suo governo e perseverando a promuovere autoritarismo militare e uomini accusati di stupro ha dimostrato la volontà di non ascoltare le richieste del popolo delle donne, tra l’altro più volte presentate nei suoi discorsi come fantocci nelle mani degli avversari di governo, con toni chiaramente paternalistici. Si preannuncia dunque una stagione di nuovi scontri e inquietudine sociale per il Messico.

D’altronde, anche l’alleanza con la destra evangelica non fa ben sperare per il futuro, in particolare per quanto riguarda la tematica dell’aborto, centrale nelle rivendicazioni dei movimenti femministi. Ad oggi, sono solo due gli Stati (Città di Messico e Oaxaca) ad aver depenalizzato l’interruzione volontaria di gravidanza e la situazione al momento non permette rimedi rapidi a tale ingiustizia.

 

Immagine: Manifestazione per l’uguaglianza e i diritti delle donne nella Giornata internazionale della donna, Città di Messico, Messico (8 marzo 2021). Crediti: Karla Fajardo / Shutterstock.com