Un semisconosciuto Comitato per gli investimenti esteri negli Stati Uniti (CFIUS, Committee on Foreign Investment in the United States) è di recente tornato alla ribalta internazionale per aver portato Trump a impedire l’acquisto per oltre cento miliardi di dollari della Qualcomm, società americana produttrice di semiconduttori, da parte della Broadcom, società di Singapore, per motivi di sicurezza nazionale, con un ordine esecutivo presidenziale, lo scorso 12 marzo.
Il presidente americano è stato, al solito, a dir poco proattivo, visto che da ricostruzioni di stampa le procedure di analisi del Comitato – presieduto dal segretario del Tesoro americano e composto dai principali dipartimenti di Stato, economici e per la sicurezza interna ed esterna, dai corrispettivi organi della Casa bianca, oltre che dal direttore dell’intelligence e dal segretario al Lavoro senza diritto di voto – pare non fosse ancora pienamente concluso e che tale decisione abbia seguito, dopo un breve lasso di tempo, un provvedimento analogo sull’acquisizione di un’altra società americana produttrice di chip, la Lattice, da parte di un fondo di private equity cinese sempre a seguito dello scrutinio del CFIUS.
Particolarmente interessanti sono però alcune delle motivazioni, ovviamente quelle non coperte da segreto, alla base delle decisioni assunte dall’amministrazione americana, riportate in una lettera indirizzata ai rappresentanti legali dell’operazione Qualcomm nella fase di indagine del CFIUS. Il Comitato ha infatti sottolineato che l’acquisizione da parte dell’impresa di Singapore avrebbe da un lato indebolito la leadership tecnologica e la competitività dell’impresa americana con effetti negativi sulla sicurezza nazionale, aprendo la porta a una maggiore competizione cinese nel creare standard e nuove tecnologie e riducendo la forte attività di ricerca e sviluppo svolta, e dall’altro avrebbe esposto al rischio di limitazione, interruzione o minore sicurezza e integrità delle forniture della società di semiconduttori per il governo americano, come quelle per il dipartimento della Difesa.
Lo scrutinio del Comitato, che può riguardare ogni possibile transazione, fusione o acquisizioni che determinino il controllo di un “U.S. business”, un’attività imprenditoriale statunitense, da parte di un soggetto straniero, sembra, quindi, ricomprendere nel concetto di sicurezza nazionale tutti quegli elementi alla base della competitività economica e tecnologica del sistema produttivo statunitense.
In questa direzione sicuramente va anche la Strategia per la Sicurezza nazionale dell’amministrazione Trump che individua uno dei suoi pilastri nella «promozione della prosperità americana». “Sicurezza economica è sicurezza nazionale” è il principio declinato nel sottotitolo del capitolo dedicato, il quale specifica che tale sicurezza deve essere perseguita anche attraverso la difesa dai sistemi economici concorrenti della cosiddetta National Security innovation base, ovvero quella rete di “conoscenze, competenze e persone” fatta di imprese, università e agenzie governative che trasformando idee e scoperte in innovazioni, prodotti e servizi protegge e rafforza l’“American way of life” e costituisce quel fondamento per la leadership tecnologica cruciale per la prosperità e la potenza degli Stati Uniti.
Questi elementi integrano e probabilmente ampliano i concetti di “critical infrastructure” e “critical technologies” che sono individuati dalla legislazione americana, in maniera abbastanza generale per la verità, come i principali ambiti economici in cui gli investimenti esteri siano da sottoporre a vaglio, presenti in varia forma e affrontati con diversi strumenti di policy anche in altre esperienze internazionali, come documentato di recente dall’OECD (Organization for Economic Cooperation and Development).
L’Italia ad esempio è tra quei Paesi, insieme ad Austria, Canada, Cina, Finlandia e Lituania, che hanno introdotto a partire dal 2012, e poi integrato e ampliato, poteri speciali di intervento – il cosiddetto golden power già presente in Francia e in Germania – in settori strategici e di interesse nazionale come quelli infrastrutturali di energia, trasporti, telecomunicazioni e quelli ad alta tecnologia. Un’applicazione significativa di questi poteri in Italia è stata di recente al centro del dibattito economico nazionale: la vicenda TIM infatti ha visto il governo imporre alla francese Vivendi una serie di misure volte a mantenere sul territorio nazionale funzioni relative alle reti di telecomunicazioni connesse ad attività “strategiche” per la sicurezza nazionale, a individuare specifici assetti organizzativi e di governance della società, oltre a stabilire una multa di 73,4 milioni di euro per mancate notifiche obbligatorie per la società ai sensi della normativa sul golden power.
Nel 2017 non è stato l’unico caso di ricorso ai poteri speciali – altri hanno riguardato, ad esempio, la Piaggio Aero Industries – a riprova dell’attenzione alle minacce alla sicurezza economico-finanziaria del Paese. La nostra intelligence da tempo sottolinea esplicitamente concreti fattori di rischio per la competitività del tessuto produttivo italiano oltre che per i livelli occupazionali del sistema nazionale dovuti alle acquisizioni “predatorie”, volte a sottrarre tecnologie e competenze industriali e commerciali, alle delocalizzazioni produttive o dei centri decisionali delle attività imprenditoriali e all’occupazione degli spazi di mercato nazionali o presidiati da imprese nazionali “anche attraverso pratiche scorrette, esautoramento o avvicendamento preordinato di manager e tecnici italiani”. E questo avviene in ogni Paese occidentale e non solo.
Tornando alla realtà americana, mentre negli anni Ottanta gli investimenti giapponesi avevano destato preoccupazione portando a rafforzare i poteri del presidente dotandolo di quella decisione esecutiva utilizzata da Trump, che non necessita di approvazione parlamentare, in questa fase storica l’attivismo di imprese e fondi cinesi, spesso strettamente connessi se non direttamente controllati dal governo di Pechino, insieme alle preoccupazioni manifestate sin dal 2013 dal sistema di intelligence statunitense rispetto ai tentativi di governi e imprese estere di acquisire imprese americane leader in “critical technologies”, ha portato a una crescente attenzione.
Secondo il Council on foreign relations infatti il numero delle operazioni sorvegliate dal CFIUS e oggetto di specifica indagine è cresciuto nel tempo fino a raggiungere 270 procedimenti e oltre 100 investigazioni nel 2017, con un incremento significativo anche rispetto ai valori del 2015 (143 procedimenti e 66 investigazioni) riportati dal Rapporto annuale del Comitato al Congresso americano, e i vertici del partito repubblicano stanno portando avanti un disegno di legge bipartisan per incrementare ulteriormente il raggio di azione del Comitato.
Il tema è sentito anche di qua dall’Atlantico dato che lo scorso settembre 2017 anche la Commissione europea si è preoccupata di avanzare una proposta di quadro europeo per il controllo degli investimenti esteri, basata sul coordinamento e la cooperazione nei meccanismi di monitoraggio nelle specifiche competenze dei singoli Stati membri e sull’attribuzione alla Commissione medesima di poteri specifici per progetti e programmi di interesse europeo, oltre che un’analisi dell’impatto degli investimenti diretti esteri, i cosiddetti IDE, nei settori e nelle attività strategiche da concludersi entro fine 2018.
Per l’Europa l’attenzione è rivolta sicuramente alla Cina, sempre più protagonista di shopping di aziende e tecnologie e investimenti nel vecchio continente, pari nel 2017 a 90 miliardi di dollari, circa il 53% delle risorse cinesi investite all’estero, ma non meno agli Stati Uniti che continuano a costituire il principale Paese di provenienza degli investimenti esteri nella UE, circa il 41% sul totale degli IDE ancora nel 2015, e in generale nel resto del mondo.
Nel vecchio continente, inoltre, è sempre in agguato anche la dinamica dei “polli di Renzo”, con Stati membri più o meno forti economicamente e politicamente, pronti a supportare le proprie imprese nella competizione per l’accaparramento di tecnologie, competenze, mercati nei confronti dei loro pari, o difenderli attivamente se attaccati, e con quelli più deboli intenti a salvaguardare per quanto possibile gli interessi strategici nazionali. Così, in un’Europa molto mercato unico e poco unione, reciprocità e solidarietà, si ha una sorta di rovesciamento dell’adagio popolare “dagli amici mi guardi Dio, che dai nemici mi guardo io”, con i Paesi membri intenti a un serrato confronto reciproco e in difficoltà a fronteggiare le grandi imprese globali cinesi e americane.
La fase di nuovo realismo sulla cosiddetta globalizzazione, infatti, ha portato la Commissione stessa a riconoscere, tardivamente, «l’emergere di crescenti preoccupazioni riguardo alle acquisizioni strategiche di imprese europee che dispongono di tecnologie fondamentali da parte di investitori esteri» e richiede oggi di attrezzarsi ad un mondo che la Cina cerca di ridisegnare riproponendosi come impero di mezzo attraverso la Nuova Via della Seta e in cui gli USA propongono una gestione dei rapporti economici internazionali più muscolare e basata sul confronto bilaterale tra sistemi-Paese, come evidenziato dalla vicenda dei dazi e del deficit commerciale.
Questo significa, ancor di più, non dare per scontati né i trend né le politiche di ciascun Paese.
Proprio la Cina ad esempio ha visto ridurre significativamente i propri investimenti esteri non finanziari un anno sull’altro, dal picco dei 180 miliardi di dollari del 2016 ai circa 120 miliardi del 2017, sia per effetto delle decisioni delle autorità di Pechino di frenare le acquisizioni considerate non strategiche, focalizzandole principalmente sulla one belt one road, e di evitare eccessivi deflussi di capitale che rischiavano di mettere a rischio la tenuta dello yuan. La riduzione degli investimenti e delle acquisizioni in Europa e negli USA, potrebbe anche rispondere alla più intensa attività di vigilanza delle autorità nazionali, magari con l’implicita volontà di risultare meno aggressivi nell’arena economica globale, almeno in ambiti non considerati strategici.
D’altro canto, nel momento di riflusso della globalizzazione o quantomeno della retorica della globalizzazione, gli Stati Uniti rimangono saldamente il primo Paese investitore all’estero con oltre 300 miliardi di dollari all’anno, almeno secondo dati 2015 e 2016, facendo risuonare le parole caustiche di John Kenneth Galbraith, che non usava il termine globalizzazione in quanto non lo considerava «un concetto serio» ma «inventato [da] noi americani per mascherare la nostra politica di penetrazione economica negli altri Paesi».
Passata la stagione delle aperture globali dei mercati, sembra a prima vista tornata la stagione degli interessi strategici nazionali degli Stati: in realtà è una stagione mai superata, sebbene in alcuni casi e per alcuni Paesi messa a dura prova in particolare da grandi imprese e investitori finanziari davvero globali, che oggi trova un nuovo riconoscimento e legittimazione. Ma a maggior ragione richiede che ogni attore sia ancor più attrezzato nel ring globale.