La grande sfida del 2022 sarà l’energia. Gli eventi legati alla pandemia hanno dominato la scena mediatica e politica degli ultimi due anni, sottraendo spazio a tante questioni importanti, alcune delle quali rimaste irrisolte. La crisi energetica in corso rischia di interrompere una crescita economica ancora fragile, in modo particolare per Paesi come l’Italia, dove la forte dipendenza energetica da fonti estere mette a rischio il sistema produttivo nazionale.

Le grandi imprese energetiche hanno varato piani industriali molto ambiziosi sul lungo periodo, iniziando una transizione, che nei prossimi decenni le vedrà affrancarsi prima dal petrolio e poi dal gas naturale. L’oggetto del desiderio sembra essere l’idrogeno, dove progetti e risorse per una sua implementazione non mancano. Lo sviluppo tecnologico spinge le fonti rinnovabili verso un notevole sviluppo, ma esse non sono ancora in grado di sostenere la fame energetica degli Stati. Devono, inoltre, fare i conti con alcune problematiche, quali il consumo di suolo e l’onnipresente sindrome NIMBY (Not In My Back Yard).

La ripresa economica richiede molta energia, e da qui si spiegano le scelte di alcuni Paesi di riattivare le centrali a carbone per far fronte ai fabbisogni nazionali. Tra le fonti fossili, il carbone è quella più inquinante, ma rimane altamente competitiva per il prezzo e per l’abbondanza. I costi legati all’energia sono cresciuti in modo esponenziale negli ultimi cinque mesi, e le motivazioni di questi incrementi sono tutt’altro che banali. In primis, l’allentamento delle restrizioni dovute alla pandemia e la conseguente ripresa economica hanno richiesto quantitativi energetici sempre maggiori. In Europa hanno pesato anche alcune situazioni come lo stop di alcune centrali nucleari e la bassa generazione energetica dei parchi eolici nei Paesi del Nord.

L’exploit maggiore lo ha subito il gas naturale, che nonostante appartenga alla famiglia delle fonti fossili, sarà il carburante che consentirà agli Stati di intraprendere la transizione verso un mondo senza emissioni. La Commissione europea ha inserito il gas naturale nella propria tassonomia verde, alimentando le proteste degli ambientalisti che non accettano tale riconoscimento. Il mercato del gas naturale tende ad assumere una dimensione regionale per via dell’infrastruttura attraverso la quale viene convogliato, i gasdotti. Ad esempio, il mercato europeo è fortemente dipendente dalle risorse russe ed in parte da quelle nordafricane, mentre quello nordamericano si basa tutto sullo shale gas.

Per l’Europa, la dipendenza dal gas russo è quasi naturale: è il fornitore più vicino, affidabile, economico e ha un’infrastruttura già interconnessa con quella europea. La presenza di colli di bottiglia ha, però, attenuato i suddetti vantaggi; esiste una certa ambiguità a livello europeo nei confronti di Mosca: se da un lato grandi Paesi come l’Italia, la Francia, ma soprattutto la Germania sono disposti a dialogare con Mosca, dall’altro un nutrito gruppo di Stati, quali quelli del Baltico e la Polonia, sono pronti a osteggiare la Federazione, con il benestare statunitense. L’irrisolta questione ucraina e le crescenti tensioni sul confine bielorusso hanno irrigidito le posizioni in campo, e hanno influito in un certo qual modo nel processo autorizzativo di Nord Stream 2. Nonostante la contrarietà americana e di alcuni Paesi europei, Polonia in testa, il nuovo gasdotto è stato completato ed una volta entrato in funzione andrà a raddoppiare la capacità della struttura già esistente, raggiungendo una capacità di trasporto di circa 110 miliardi di m³.

Il sistema di Nord Stream rappresenta la prima pipeline che bypassa i territori che in passato appartenevano all’Unione Sovietica e collega direttamente la Russia alla Germania, trasformando quest’ultima nel principale hub del gas nell’Unione Europea (EU). Gli oppositori sottolineano come l’opera aumenti il rischio di una maggiore dipendenza europea dal gas russo, e quindi dalle scelte di Putin, e che privi soprattutto l’Ucraina di un gettito fiscale generato dal transito, di fondamentale importanza per la fragile economia nazionale. Da settembre il gigante di stato russo Gazprom non ha risposto alle richieste europee di aumentare le forniture di gas naturale a fronte di una crescita dei consumi. La situazione è resa ancor più grave dalla recente interruzione dei flussi di gas russo verso l’Europa attraverso il gasdotto Yamal-Europe. La naturale conseguenza è stata l’aumento dei prezzi che hanno portato le quotazioni dell’oro blu alle stelle.

L’atteggiamento russo certamente è stato una conseguenza della mancata autorizzazione di Nord Stream 2, ma risponde anche ad alcune logiche interne. Prima di pompare maggiori quantità di gas verso l’Europa, Gazprom ha dovuto provvedere a riempire i depositi per far fronte ai fabbisogni nazionali. Le frizioni all’interno del nuovo governo tedesco guidato dal cancelliere Scholz non impediranno la messa in funzione del gasdotto, che ottimisticamente avverrà nella primavera prossima. Sarebbe sciocco e antieconomico, soprattutto per la Germania, non approvare un’infrastruttura già completata e costata diversi miliardi.

L’Europa paga la mancanza di una politica energetica comune ma soprattutto la decisione di acquistare il gas naturale tramite contratti spot e non attraverso accordi a lungo termine. L’aumento delle quotazioni ha creato un’opportunità per il gas made in Usa. Fino a pochi mesi fa, le metaniere statunitensi preferivano far rotta sul mercato asiatico perché le quotazioni erano le più elevate, ma l’exploit in Europa ha invertito la tendenza. Diverse metaniere di proprietà della Cheniere, la principale produttrice di GNL (Gas Naturale Liquefatto) negli Stati Uniti, hanno fatto rotta verso i rigassificatori europei. Come detto precedentemente, lo shale gas ha reso gli americani indipendenti a tal punto da poterlo anche esportare. Ma la tecnica per ottenere il gas non convenzionale, ovvero il fracking, è estremamente costosa e ha un notevole impatto sull’ambiente e sulla salute.

La transizione energetica richiederà molta energia e l’affrancamento immediato dagli idrocarburi come il gas naturale può rappresentare un rischio non calcolato per il processo che gli Stati europei intendono intraprendere. Negli ultimi decenni gli investimenti nel settore oil & gas sono calati e con essi le produzioni nazionali. Prendendo in esame l’Italia, la produzione di gas è passata dai 20 miliardi di m³ del 2000 ai 4,5 di oggi. Esistono delle riserve accertate che potrebbero contribuire a ridurre in parte la dipendenza dalle fonti estere e, soprattutto, sarebbero utili a calmierare i costi, ma l’ostacolo di una legislazione più stringente e la contrarietà diffusa nell’opinione pubblica rendono questi progetti difficili da implementare. Nonostante l’opera sia stata osteggiata da più parti, il TAP (Trans Adriatic Pipeline) ha consentito al nostro Paese di attenuare l’impennata dei prezzi del gas per circa il 10%.

La crisi energetica non è passeggera e molto probabilmente produrrà i suoi effetti per buona parte del 2022. I sussidi non bastano, sono strumenti temporanei e non possono essere utilizzati all’infinto. Sarà compito degli Stati trovare soluzioni valide per sostenere le proprie economie nella difficile ripresa post-pandemia.

Immagine: Il Trans-Alaska Pipeline, Brooks Range settentrionale, Alaska (20 giugno 2007).  Crediti: U.S. Geological Survey [CC0 1.0 Universal (CC0 1.0) Public Domain Dedication], attraverso www.flickr.com

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