L’improvviso tracollo degli eventi geopolitici in Afghanistan, con la rapida riconquista del potere da parte dei Talebani e la precipitosa ritirata di tutti gli eserciti europei, ha destato molte preoccupazioni in merito ai diritti sociali e civili delle frange più deboli della popolazione afghana, in particolar modo delle donne.

A questo ha contribuito la memoria ancora fresca, presso la popolazione occidentale, delle leggi indiscutibilmente repressive istituite, tramite un’interpretazione radicale della Shari‛a, dai Talebani soprattutto nei confronti delle donne afghane, negli anni in cui essi furono al potere tra il 1996 e il 2001. Grazie ai media tradizionali, simbolo emblematico di tale oppressione divenne il burqa, un indumento che copre da capo a piedi, schermando persino gli occhi, e che non ha mai avuto in realtà alcun legame tradizionale con gli usi e costumi afghani. Non manca tuttavia, in tali narrazioni occidentali, anche una sorta di sciovinismo e paternalismo eurocentrico dato da uno sguardo che osserva con commiserazione e paternalismo altre culture, convinto della superiorità della propria e desideroso, dunque, di “esportarla” per condurre anche popoli meno fortunati al progresso civile e sociale. Da questo tipo di sentimento sono nate, pure in questi frangenti drammatici, una serie di osservazioni infelici, anche in ambito italiano, ove alcune voci hanno insistito nel chiedere e chiedersi retoricamente dove fossero le femministe europee in un momento tanto difficile per le donne afghane.

Eppure, al di là dell’ovvia e necessaria sorellanza transazionale tra associazioni che si occupano di diritti femminili (si veda in Italia l’ottimo lavoro portato avanti ora come in passato da Pangea Onlus), sconosciuta o ignorata da chi preferisce non vedere o rendere visibile, le donne afghane hanno da tempo dimostrato di essere in grado di difendersi da sole.

La più grande delle associazioni a difesa dei diritti delle donne afghane, chiamata RAWA (Associazione rivoluzionaria delle donne afghane) esiste infatti dal 1977 e fu fondata ai tempi dell’occupazione sovietica. Colei che diede vita a RAWA, ovvero l’attivista Meena Keshwar Kamal, venne uccisa nel 1987 dagli agenti afghani dell’allora KGB, i servizi segreti sovietici. Da più di quarant’anni tale associazione lotta, senza alcun vero sostegno da parte di qualsivoglia governo, per costruire una rete di solidarietà femminile, lavorando con le donne “dal basso”, per permettere il miglioramento delle loro condizioni a partire da progetti di inclusione scolastica e lavorativa e per garantire a donne e bambini un’assistenza sanitaria di qualità.

Un altro dei principali obiettivi del RAWA, soprattutto durante il precedente regime dei Talebani, è stato quello di rendere edotta la comunità internazionale sulle sofferenze subite dalle donne, a rischio della propria vita. A tale associazione va ricondotta, ad esempio, la diffusione di un tristemente celebre filmato (ora rimosso) riguardante l’esecuzione pubblica di una donna, Zarmina, madre di sette figli, accusata di aver ucciso il marito nel sonno. Tali immagini, risalenti al 1999, destarono moltissimo sdegno e scalpore all’epoca, contribuendo a far conoscere all’estero la brutalità del regime estremista dei Talebani. RAWA ha avuto anche il coraggio di affermare che per molte donne afghane, al di là della vulgata occidentale, la situazione non era affatto migliorata negli ultimi vent’anni nonostante la presenza statunitense e della NATO, delle cui forze hanno, tra l’altro, sempre chiesto il ritiro preoccupate che tale occupazione rischiasse di rafforzare più che diminuire il potere e l’influenza dei Talebani sulla popolazione, soprattutto a livello di ideologia. Sempre scomode per tutti gli attori politici in gioco, le donne di questa associazione hanno continuato a lavorare in clandestinità tra Afghanistan e Pakistan, informando sulle violenze subite quotidianamente dalle donne e non potendo mai esporsi in prima persona per rischi di ritorsioni. Non è un caso che si firmino sempre collettivamente e che le loro portavoci operino sempre nell’anonimato.

La narrazione delle povere donne afghane da salvare cozza d’altronde anche contro i recenti avvenimenti che hanno coinvolto centinaia di donne residenti in alcuni delle città principali del Paese: più volte, infatti, negli ultimi giorni a Kabul e a Herat (città della parte occidentale dell’Afghanistan) sono state organizzate proteste di sole donne, in opposizione al governo non ancora pienamente formato dei Talebani. Proprio successivamente alla prima conferenza stampa del 17 agosto, indetta da Zabihullah Mujahid, portavoce dei Talebani, le donne di RAWA hanno diramato un comunicato stampa in cui emerge tutta la loro volontà di continuare a lottare  perseguendo, secondo le proprie regole, un percorso di emancipazione femminile che vada al di là dei velleitari tentativi occidentali di “esportare” modelli addomesticati e preconfezionati di una democrazia o di un femminismo del tutto estranei alle radici culturali del territorio afghano.

Non solo: l’8 settembre un’altra protesta a Kabul ha coinvolto decine di donne che hanno manifestato la loro contrarietà a un governo di soli uomini come quello presentato finora dai Talebani o all’eventualità di impedire nuovamente l’accesso al lavoro alla popolazione femminile. Tale manifestazione, così come altre, simili nei contenuti, verificatesi anche nella provincia di Badakhshan, è stata duramente repressa dai Talebani. Ulteriore segno di un’assenza di rassegnazione da parte delle donne afghane, perfettamente in grado di agire con autonomia di pensiero e iniziative, secondo una pratica che precede e prescinde da ogni eventuale azione salvifica degli europei e degli americani.

Immagine: Un gruppo di microfinanza di donne con i loro libretti di risparmio, Baharak, Afghanistan (2 giugno 2010). Crediti: Maximum Exposure PR / Shutterstock

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