Dopo una lunga serie di speculazioni relative all’assenza di Xi Jinping (peraltro resa nota dal Times fin dalla metà del mese di ottobre) e scambi di accuse reciproci, il 10 novembre, a ridosso della conclusione del vertice ONU sul clima riunito a Glasgow (COP26), è giunta pressoché inaspettata la firma di una dichiarazione congiunta tra Pechino e Washington contro il cambiamento climatico. A prevalere è stato, dunque, il senso di responsabilità, al di là delle reciproche diffidenze, che rimangono, e che vanno ben oltre la questione climatica. Sul clima, infatti, è la scienza a dettare legge e la scienza dice che “dobbiamo agire assieme e nella stessa direzione”; la cooperazione è l’unica scelta possibile per affrontare un’urgenza che mette a rischio la “nostra stessa esistenza”. Sono queste alcune delle considerazioni da parte delle due controparti, a margine della firma. L’inviato speciale per il clima della Casa Bianca, John Kerry, ha persino fatto un paragone con gli accordi sul disarmo nucleare dell’era Reagan, che «hanno reso il mondo un posto più sicuro». Ad ogni buon conto, l’accordo è stato salutato con favore dal segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, definendolo «un passo avanti nella giusta direzione».

Con la firma dell’accordo, i due Paesi «riconoscono la gravità e l’urgenza della crisi climatica» e si «impegnano ad affrontarla nel decennio critico», anche attraverso la «cooperazione nei processi multilaterali». Washington e Pechino hanno rilanciato l’attuazione degli accordi di Parigi, puntando all’obiettivo di mantenere l’aumento della temperatura globale «ben al di sotto dei due gradi e di proseguire sforzi per limitarlo a 1,5 gradi». Nel testo viene riconosciuto, tuttavia, il divario tra i risultati raggiunti e gli obiettivi prefissati dagli accordi di Parigi, pertanto, sottolineano «l’importanza vitale di colmare tale divario il prima possibile, attraverso sforzi più intensi» volti ad «accelerare la transizione verde e verso le basse emissioni di carbonio». Per raggiungere questo obiettivo, hanno promesso di collaborare anche al fine di «migliorare la misurazione delle emissioni di metano e scambiarsi informazioni sulle rispettive politiche per il controllo del metano», essendo quest’ultimo il secondo idrocarburo più inquinante al mondo.

L’impegno alla collaborazione tra le due superpotenze è stato ribadito anche in occasione del lungo incontro virtuale tra i due leader, il 15 novembre (il primo in assoluto tra i due), riportato dalla stampa internazionale (ma anche cinese) in termini molto positivi. In particolare, secondo la Reuters, il presidente statunitense avrebbe sottolineato come la «nostra responsabilità come leader di Cina e Stati Uniti è di garantire che la concorrenza tra i nostri Paesi non si trasformi in conflitto, intenzionale o meno», mentre Xi Jinping, rivolgendosi a Biden come «vecchio amico», avrebbe ribadito come «nei prossimi 50 anni, la cosa più importante nelle relazioni internazionali è che Cina e Stati Uniti devono trovare il modo giusto per andare d’accordo».

Tra i passaggi più importanti dell’accordo bilaterale sul clima, vi è senza dubbio l’impegno di Pechino in merito al raggiungimento della cosiddetta “neutralità carbonica” (o “zero emissioni”), già annunciata dal presidente cinese in più occasioni (da ultimo nel discorso, tenuto in remoto, alla settantaseiesima Assemblea generale dell’ONU, lo scorso mese di settembre), intorno la metà del secolo (e non necessariamente entro il 2050). In particolare, laddove gli Stati Uniti hanno fissato l’obiettivo di raggiungere il traguardo di “zero emissioni” entro il 2035, la Repubblica Popolare Cinese ha promesso di lavorare al fine di «ridurre gradualmente il consumo di carbone» e contrastare la deforestazione, accogliendo (assieme a Washington) l’appello lanciato dalla COP26, volto a fermare il depauperamento del patrimonio boschivo.

Ma la “neutralità carbonica” da raggiungere entro il 2060 – con il picco di emissioni previsto per il 2030 – rappresenta un obiettivo che l’amministrazione di Xi aveva annunciato già in precedenza, come emerge dalla prolusione del presidente cinese in occasione della settantacinquesima sessione dell’Assemblea generale, nel settembre 2020, e ribadito nel novembre successivo in occasione dell’incontro dei Paesi BRICS. Secondo il presidente cinese, l’umanità non poteva più permettersi di ignorare i ripetuti avvertimenti provenienti dalla natura e per questo il suo Paese era intenzionato ad aumentare il proprio contributo previsto a livello nazionale, attraverso l’adozione di politiche e misure più rigorose. Al contempo, egli chiedeva a tutti i Paesi di perseguire «uno sviluppo innovativo, coordinato, verde e aperto per tutti, cogliere le opportunità storiche presentate dal nuovo ciclo di rivoluzione scientifica e tecnologica e trasformazione industriale, realizzare una ripresa verde dell’economia mondiale nell’era post-COVID e creare così una potente forza trainante dello sviluppo sostenibile». All’epoca, la dichiarazione di Pechino aveva suscitato sorpresa nei più, ma era stata accolta come una scelta strategica, sebbene non fossero mancate le critiche, soprattutto da parte di coloro che vedevano nell’intervento del leader cinese un’evidente mossa geopolitica – determinata dall’intenzione di Pechino di assumere un ruolo di leadership sulla gestione climatica nel prossimo futuro, di fronte ad una amministrazione statunitense che aveva optato per il disimpegno – e una mera dichiarazione di intenti, di difficile realizzazione, in considerazione del fatto che la “neutralità carbonica” sembrava mal conciliarsi con la continua espansione del carbone nel Paese.

In effetti, proprio nei mesi più critici della crisi pandemica, la Cina aveva dato il via alla costruzione di nuove centrali elettriche a carbone, alla luce della crisi energetica che attanagliava il Paese, contrassegnata da frequenti interruzioni di corrente che aveva determinato l’interruzione della catena di approvvigionamento, causata dai rigorosi obiettivi di emissione e dai prezzi record del combustibile, e aveva messo in evidenza gravi problemi strutturali. Insomma, la ripresa economica cinese registrata a partire dagli ultimi mesi del 2020 è stata resa possibile proprio grazie alla crescita della produzione di energia con il carbone. Stando ai dati riferiti al settembre 2021, nell’ultimo anno la Cina avrebbe installato 37 GW di nuova capacità energetica a carbone, pari al triplo di quella sommata del resto del mondo. Al contempo, il governo di Pechino avrebbe rilasciato autorizzazioni per installare ulteriori 250 GW entro il 2025 da centrali energetiche a carbone. Va da sé che, per rispettare gli impegni della COP26, Pechino dovrebbe annullare le suddette concessioni. In effetti, nel già menzionato discorso alla settantaseiesima Assemblea generale dell’ONU, Xi Jinping ha annunciato che il Paese avrebbe interrotto la costruzione di nuove centrali a carbone all’estero, mentre avrebbe aumentato gli investimenti in metodi di produzione di energia più rispettosi dell’ambiente, nei Paesi in via di sviluppo dove esercita la sua influenza. Viceversa, non ha fatto alcun accenno in merito ai piani di dismissione del carbone all’interno del Paese, contrariamente all’anno precedente quando, in sede ONU, si era impegnato a raggiungere la “neutralità carbonica” entro il 2060.

Pechino è cosciente del fatto di essere il primo emettitore di CO2 in termini assoluti – sebbene non manchi di ribadire che guardando al dato pro capite la situazione è ben differente, dal momento che un americano medio produce più o meno il doppio di emissioni rispetto al corrispettivo cinese – e per tale motivo cerca di portare avanti due strategie, inconciliabili fra loro. Da un lato prosegue la propria crescita industriale basata sui combustibili fossili; dall’altro investe in soluzioni tecnologiche innovative al fine di rendere più efficaci gli sforzi per contrastare l’inquinamento e i cambiamenti climatici, oltre a limitare i danni di un’economia ancora troppo basata sugli idrocarburi. Tra le varie soluzioni merita di essere citata la “tecnologia blockchain”, utile per rendere più veloci e sicure le transazioni di pacchetti energetici “green”, prodotti da impianti a fonti rinnovabili.

La strategia cinese in merito è guidata dall’agenzia governativa per lo sviluppo e le riforme (nota con l’acronimo inglese NDRC, National Development and Reform Commission), in partenariato con i principali distributori di energia del Paese, ossia la State Grid Corporation of China e la China Southern Power Grid. Vale la pena sottolineare come la tecnologia blockchain fosse stata inserita ufficialmente nel documento finale relativo al XIV piano quinquennale (2021-25) deciso dal V plenum del Comitato centrale del Partito e approvato dal Parlamento lo scorso mese di marzo. In particolare, nel documento era incluso anche il lancio di un progetto per sviluppare un Blockchain Service Network, ossia una infrastruttura blockchain nazionale, da intendersi quale risorsa fondamentale per il piano di sviluppo Vision 2035. Gli investimenti in questa tecnologia stanno crescendo ad un tasso medio annuo del +52% e le stime di IDC (International Data Corporation) indicano per il 2024 una spesa complessiva di 2,3 miliardi di dollari.

Ciò detto, la problematica in questione, oltre a riguardare la dimensione internazionale del Paese, strettamente collegata all’immagine di “grande potenza responsabile” (fuzeren daguo) che la Cina vuole trasmettere a livello globale, ha molto a che fare anche con la dimensione interna, in particolare con l’accresciuto senso della consapevolezza ambientale da parte della popolazione cinese che sta sperimentando sulla propria pelle alcune delle conseguenze più drammatiche del cambiamento climatico, tra piogge torrenziali, inondazioni e disastri naturali che si ripetono con una sempre maggiore frequenza – l’ultimo dei quali la scorsa estate nella provincia dello Henan, che ha causato ben 71 vittime e provocato danni e disagi a oltre undici milioni di persone. Insieme alla consapevolezza ambientale, è aumentata anche la sfiducia nei confronti delle capacità del governo a farvi fronte, il che rappresenta un fattore potenzialmente in grado di destabilizzare la società, con tutto ciò che ne consegue in termini di legittimazione del Partito.

Anche per rispondere a questa duplice pressione, il governo cinese a fine ottobre ha pubblicato un Libro Bianco intitolato Rispondere ai cambiamenti climatici: le politiche e le azioni della Cina, volto a documentare i progressi del Paese nella mitigazione dei cambiamenti climatici e condividere la sua esperienza e i suoi approcci con il resto della comunità internazionale, ma con uno sguardo rivolto anche al pubblico cinese.

Immagine: Strade invase dall’acqua dopo forti piogge nel distretto di Tianhe, Guangzhou, Cina (22 agosto 2014). Crediti: Julythese7en / Shutterstock.com

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