Le relazioni tra Stati Uniti e Turchia sono in fibrillazione da anni. Il continuo susseguirsi di strappi e ricuciture è frutto dell’intreccio di interessi di due partner che non si amano, ma che neppure possono fare a meno l’uno dell’altro.

I sentimenti di pancia del Paese anatolico non sono mai stati benevoli nei confronti dell’America. L’ultimo sondaggio in materia dell’Università Kadir Has di Istanbul ha rivelato numeri importanti, ma che non sorprendono: oltre l’80% dei turchi considera gli Stati Uniti una minaccia per la nazione. Allo stesso tempo, però, quasi il 60% della popolazione ritiene un bene per il Paese la partecipazione alla NATO, a scapito del fatto che l’alleanza atlantica sia sostanzialmente guidata dall’interesse americano.

La stessa ambiguità di sentimenti dei turchi verso l’America si avverte in campo economico. Il biasimo e la responsabilità per le recenti difficoltà dell’economia turca, dal crollo del valore della valuta nazionale all’inflazione che galoppa oltre il 20%, sono generalmente attribuite alla volontà di Washington di imporre schemi sanzionatori alla Turchia, per ricondurla all’interno dei desiderata della Casa Bianca in quelle vicende che hanno tenuto banco negli ultimi anni: dalle sanzioni americane verso l’Iran, che la Turchia ha a lungo rifiutato di assecondare, alla volontà turca di acquisto del sistema missilistico S-400 di fattura russa, in spregio all’appartenenza alla NATO.

È la stessa narrativa del governo del presidente turco Recep Tayyip Erdoğan ad alimentare questa tesi accusatoria. Ma contestualmente il presidente americano Donald Trump e il suo omologo turco lavorano da tempo ad un abbattimento delle barriere doganali con l’obiettivo di portare lo scambio commerciale tra i due Paesi ad oltre 75 miliardi di dollari. Americana è anche l’azienda di servizi finanziari Citigroup Inc. che, insieme ad una banca statale cinese, la presidenza turca ha voluto coinvolgere nella ristrutturazione del fondo sovrano nazionale turco (Varlık Fonu), creato nel 2016 e sul quale poggiano le fondamenta numerose aziende turche di interesse strategico, tra cui la compagnia di bandiera Turkish Airlines, l’azienda petrolifera Turkish Petroleum, la stesa Borsa di Istanbul e le più grosse banche statali, Ziraat e Halkbank.

Un nuovo tonfo verso il basso nella giostra delle relazioni turco-americane si può notare se prendiamo in esame l’industria militare, settore essenziale del business americano in cui la Turchia di Erdoğan manifesta una ferrea volontà di camminare da sola. Da un lato persegue il sogno di un’industria nazionale competitiva a livello planetario, soprattutto attraverso il gigante Aselsan. Dall’altro cerca di diversificare i propri fornitori e ridurre la dipendenza da singoli attori, intrecciando rapporti con la Cina e, soprattutto, con la Russia, nemici giurati di Washington.

Gli Stati Uniti, dopo mesi di gelo, hanno lanciato un segnale distensivo sul fronte della diatriba dell’acquisto di un nuovo sistema di difesa missilistico da parte di Ankara. Ai già citati S-400 russi fanno da contraltare i Patriot americani, che la Casa Bianca ha offerto ad Erdoğan a prezzo concorrenziale per convincerlo ad abbandonare la pista russa.

Trump però non porge soltanto la carota, ma agita anche il bastone, e ha dato mandato per valutare la possibile estensione delle sanzioni economiche CAATSA (Countering America’s Adversaries Through Sanctions Act), provvedimenti che bersagliano con sanzioni economiche i Paesi che vengono bollati dagli Stati Uniti come “avversari”. Per la Turchia significherebbe entrare ufficialmente nella cerchia di Paesi nemici come Russia, Iran e Corea del Nord.

La questione dei missili è per ora in stallo, anche perché Erdoğan non ha alcuna intenzione di affrettarsi a decidere e ha invece aperto un altro fronte di scontro: quello venezuelano.

Non che il reis turco si sia scoperto improvvisamente un socialista rivoluzionario. Anzi, ideologicamente si trova agli antipodi rispetto al contestato presidente del Venezuela Nicolás Maduro. I due, semmai, condividono al momento un forte sentimento antiamericano, figlio del pragmatismo nel caso turco, assai più ideologico nello scenario di Caracas. E così, mentre gli Stati Uniti appoggiano apertamente il leader dell’opposizione venezuelana Juan Guaidó, Erdoğan è sceso in campo come uno dei più convinti sostenitori di Maduro e non solo a parole, ma con i fatti. La Turchia ha preso in custodia quasi un miliardo di dollari in oro da Caracas, consentendo così al governo venezuelano di allentare il cappio delle sanzioni che gli Stati Uniti hanno imposto al Paese sudamericano. Washington ha ovviamente protestato, anzi minacciato di estendere altre sanzioni contro la Turchia. Ha anche di nuovo congelato il dialogo attorno alla possibile estradizione dell’imam turco Fethullah Gülen, residente negli Stati Uniti, che Ankara rivuole in patria perché ritenuto dal governo la mente del tentato golpe del 2016.

Il vero nodo attorno a cui Stati Uniti e Turchia non riescono a trovare un accordo resta la Siria, e in particolare il futuro della regione, oggi sono il controllo delle milizie SDF (Syrian Democratic Forces), una coalizione di gruppi guidata dagli Stati Uniti e composte in larga parte dalle milizie curde YPG (Yekîneyên Parastina Gel_,_ Unità di protezione popolare). Le SDF sono state protagoniste assolute nella sconfitta militare dello Stato islamico.

Erdoğan, dopo che due operazioni militari hanno portato sotto il controllo militare turco le regioni nord-siriane di Al-Bab e Afrin, insiste nel dire che una nuova operazione sarà condotta nelle regioni di Manbij e ad est del fiume Eufrate se gli Stati Uniti non interromperanno la loro collaborazione con i Curdi siriani. Nel mentre, la Turchia ammassa nuove truppe lungo il confine meridionale, sia per mettere pressione all’alleato americano, sia per reiterare la propria volontà di essere protagonista nel futuro della regione.

Questa ferrea determinazione di Ankara, sfruttata dal governo anche in svariate campagne elettorali, è stata in parte smentita in occasione dell’annuncio del ritiro americano dalla Siria di Trump. Un fulmine a ciel sereno, che ha preso alla sprovvista lo stesso Pentagono, e che Trump ha comunicato in diretta telefonica ad Erdoğan. Colto alla sprovvista, il presidente turco si è affrettato a tirare il freno a mano sul ritiro rapido e unilaterale paventato da Trump e assolutamente indesiderato da parte dei vertici militari turchi. I quali ben sanno che un conto è perseguire il proprio piano ideale, ovvero entrare in Siria lungo una striscia di 50 km sul confine per realizzare una zona cuscinetto. Ben altro invece sostituirsi in toto agli americani nel controllo di un territorio grande oltre un terzo della Siria, come richiesto da Trump all’annuncio del ritiro. Un compito immane, con il risorgere delle cellule dell’ormai scomparso Stato islamico, con l’ostilità completa delle milizie curde sul campo, e soprattutto con il rischio di un confronto diretto con l’esercito di Damasco, pronto ad affrettarsi a recuperare più terreno possibile di quel che gli americani si lascerebbero alle spalle.

Il ritiro americano, ancora, non è avvenuto. Più che un’invasione su larga scala, l’arma che Ankara ha ancora in mano è la certezza che neppure a Damasco vedono di buon occhio l’attuale autonomia curda del Nord siriano. Più che cercare il confronto militare, Ankara punta perciò ad insediarsi saldamente ai tavoli negoziali, con l’obiettivo di marginalizzare le rappresentanze curde e stroncare sul nascere ogni ipotesi di concessione autonomista.

L’ultima ipotesi su cui lavorano rappresentanti turchi, americani e dei miliziani siriani fedeli ad Ankara è il dispiegamento di una forza curdo/araba lungo il confine volta ad isolare le YPG attraverso l’ausilio di Peshmerga iracheni. Un’alternativa in parte accettabile per Ankara, che da sempre gioca sulla frattura ideologica tra la galassia della sinistra curda, che va dal PKK (Partîya karkerén Kurdîstan, Partito dei lavoratori del Kurdistan) alle YPG, e il ben più conservatore governo autonomo curdo di Erbil, a cui i Peshmerga fanno capo. Una soluzione appena abbozzata, di difficile realizzazione e che potrebbe oltretutto spingere le SDF-YPG nell’abbraccio di Damasco e Putin.

Questi dunque i pezzi che si muovono sullo scacchiere delle relazioni turco-americane, il cui futuro appare tanto incerto quanto determinante per la regione mediorientale come per l’equilibrio mondiale nel suo complesso.

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