Tutti cercano ora di spiegarsi come mai Putin abbia invaso l’Ucraina, in un modo che si pensava non potesse più accadere nell’Europa del XXI secolo. C’è chi tira in ballo i discorsi sempre più incoerenti che sta pronunciando in questi giorni come prova di una sua instabilità mentale. C’è chi sottolinea che in realtà da anni il presidente russo non nascondesse né la sua visione strategica di ricostituzione di uno spazio “sovietico” a protezione della Russia, né la sua volontà operativa di ottenerlo con la forza (sia contro l’indipendentismo ceceno, sia conquistando territori in Georgia, Crimea e Donbass).

Se questi approcci possono spiegare il desiderio di intervenire in Ucraina, non spiegano perché farlo proprio ora, motivandolo ufficialmente con un’urgenza legata a un ulteriore allargamento della NATO, che non era realmente in agenda. La risposta a questa domanda potrebbe sorprendentemente avere a che fare con una ragazzina svedese in impermeabile giallo. È indubbio che la protesta di Greta Thunberg contro la crisi ambientale, prima individuale, poi sempre più organizzata da parte di tanti giovani in tutto il mondo ispirati dal suo esempio, abbia contribuito in modo decisivo a portare finalmente all’attenzione dell’opinione pubblica e dei leader mondiali la realtà dell’emergenza climatica e l’urgenza di iniziare a fare qualcosa per rispondervi.

Nella percezione dei rappresentanti del settore petrolifero, questa tardiva attenzione della politica nel fare alcuni piccoli passi nella direzione di limitare le emissioni è stata interpretata come una corsa troppo veloce verso le fonti rinnovabili. Nelle scorse settimane, Vladimir Putin per primo aveva definito «isterici» i piani verdi europei, accusandoli tra l’altro di essere la causa del drastico aumento dei prezzi in corso da alcuni mesi.

Chiaramente la preoccupazione di Putin non era, in questo caso, rivolta ai maggiori costi nelle nostre bollette (che anzi significano maggiori guadagni per la Russia che ci vende il gas), ma al contrario al pericolo che questa consapevolezza ambientale vada nella direzione di togliergli la propria principale risorsa economica e strategica. Il bilancio russo è infatti garantito per oltre il 40% dalla vendita di idrocarburi, con il gas che pesa per il 60% dell’export.

Detto in altre parole: l’esercito che in questo momento sta attaccando l’Ucraina è stato interamente finanziato e allestito con le nostre bollette. Ma questo significa anche che Putin sa bene come l’impegno a decarbonizzare il pianeta significherebbe far teoricamente rimanere ancora pochi anni di vacche grasse per l’economia russa. Molto presto (quanto è difficile a dirsi e dipenderà dalle scelte che verranno fatte) il suo Paese non sarà più in grado di mantenere l’efficienza militare che è stata parzialmente ricostruita nei decenni successivi alla caduta dell’Unione Sovietica. Né tanto meno sviluppare nuovi sistemi d’arma capaci di rispondere all’evoluzione tecnologica del resto del mondo. Ma neppure potrà usare l’approvvigionamento di energia come leva e minaccia strategica nei confronti dell’Europa, i cui governi invece camminano ora diplomaticamente su un filo per evitare di dover affrontare la fine dell’inverno senza il gas russo.

Ecco quindi la necessità del Cremlino di fare in fretta: riconquistare i territori che Putin considera parte dello spazio vitale russo prima che sia troppo tardi (che poi questa data di scadenza strategica possa coincidere psicologicamente anche con quella del proprio inevitabile declino fisico e della propria virilità è un’altra questione, che tra l’altro già nel Dottor Stranamore di Stanley Kubrick finiva per causare una guerra atomica).

Quindi non una guerra per il petrolio, come altre che ci siamo abituati a vedere nei decenni passati, con protagonisti anche gli Stati Uniti e l’Europa, ma una guerra prima che finisca il petrolio. O meglio ancora, prima che l’onda ambientalista acceleri la fine della dipendenza dagli idrocarburi che arricchisce tanti Paesi che ne abusano anche militarmente (oltre alla Russia, pensiamo all’Arabia Saudita in Yemen, ma non solo).

Allora l’invasione dell’Ucraina è davvero colpa di Greta Thunberg? La cosiddetta “legge dei titoli di Betteridge” sostiene che quando un titolo finisce col punto interrogativo, la risposta sia no. Chiaramente ciò vale anche in questo caso. Per due motivi: il primo è che la responsabilità delle azioni verte chiaramente verso chi le compie, in questo caso Putin (mentre la stessa Greta era nelle scorse ore a protestare contro l’invasione davanti all’ambasciata russa a Stoccolma). Il secondo è che, purtroppo, non è neanche vero che il movimento animato da Greta abbia spinto finora a un vero cambiamento sul piano energetico.

Contrariamente a quanto denunciato da Putin e dalle compagnie energetiche riguardo all’aumento dei prezzi del gas, il problema è piuttosto il fatto che il mix energetico sia ancora così sbilanciato sul gas e gli altri combustibili fossili. Al di là degli annunci, infatti, basta guardare i dati. Nel 1981 la percentuale di energia prodotta con petrolio, gas e carbone a livello mondiale era l’84%. Nel 2020, dopo così tante chiacchiere ai summit sull’ambiente, la cifra è ancora esattamente l’84%. In Italia, la dipendenza dal gas negli ultimi dieci anni è addirittura aumentata, mentre la pandemia è coincisa con un rallentamento dello sviluppo di nuovi fonti sostenibili. Ora, in risposta alla crisi ucraina, il governo sta proponendo di limitare la dipendenza dal gas russo tornando al carbone.

La battaglia di Greta può invece ispirare quella che potrebbe essere la principale mossa strategica che l’Occidente potrebbe portare avanti in questo momento nei confronti dell’offensiva russa (e più ancora per evitare che un suo eventuale successo porti a una replica su altri fronti nei prossimi anni): ovvero avviare una “economia di guerra” rivolta alla conversione ecologica.

Tra il 1941 e il 1945, in risposta alla Seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti riorganizzarono da un giorno all’altro l’intera nazione: controllando produzione e utilizzo dei materiali, vietando dal 1942 al 1945 la costruzione di automobili ed elettrodomestici pesanti. Soprattutto le linee di produzione vennero riconvertite, passando a tempo di record a produrre tecnologie mai viste prima (allora bombardieri, ora potrebbero essere impianti di produzione di energia rinnovabile). Roosevelt lo chiamò un «miracolo», ma non lo era: era un piano ben congegnato. Per risparmiare petrolio, si impose un limite di 35 miglia orarie a livello nazionale. Inoltre, carburante e copertoni vennero razionati, così come molte altre materie prime. Il razionamento era considerato più equo rispetto alla tassazione di questi beni, garantendo che non divenissero un lusso per i soli ricchi (preoccupazione che vale anche ora con i costi dell’energia). Questi ultimi si ritrovarono anche, per la prima volta, a pagare tasse federali sul reddito, che nel 1944 raggiunsero il 94%. In quei quattro anni, la spesa federale aumentò di dieci volte. La comunicazione, intanto, sottolineava ai cittadini il proprio compito in quello sforzo, insegnando loro a non sprecare nulla, a fare ciò che era necessario e rinunciare a cosa non lo fosse. È importante ricordarlo: non stiamo parlando di Unione Sovietica, oppure di chissà quale società utopica o distopica (a seconda dei punti di vista), ma degli Stati Uniti all’apice del proprio successo, che posti davanti a una sfida esistenziale, decisero di affrontarla nel solo modo possibile.

Una trasformazione di questo tipo sarebbe stato necessario farla per affrontare la crisi climatica e ambientale. Fino a qualche giorno fa si diceva che una delle principali ragioni per cui non lo si è fatto è che non si sentiva la stessa esigenza di urgenza che avviene durante un confitto militare. Ora non c’è più nemmeno questa scusa. E potrebbe anzi essere l’unica arma che abbiamo davvero nel nostro arsenale di pace.

Immagine: Un cartello con l’immagine di Greta Thunberg esibito da un manifestante durante lo sciopero globale per il clima a Lower Manhattan, New York City, Stati Uniti (20 settembre 2019). Crediti: Christopher Penler / Shutterstock.com

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