I leader latinoamericani parlano da 200 anni di integrazione, una prospettiva che sembra essere oggi più lontana che mai. Il sogno di costruire la cosiddetta Patria grande ‒ che avrebbe riunito le nazioni sotto il dominio spagnolo ‒ di Simón Bolívar e di altri eroi dell’indipendenza del XIX secolo è sempre stato contrario agli interessi delle oligarchie locali e della potenza egemonica del continente, gli Stati Uniti. I processi di consolidamento degli Stati nazionali nati dall’emancipazione iniziata nel 1810 sono stati difficili, duri, segnati dalla conquista e dall’implacabile appropriazione del territorio sottratto alle popolazioni indigene. Parallelamente a ciò si sono verificate la trasformazione culturale delle società, l’ibridazione, l’affermazione dell’identità nazionale e la mancanza di istituzioni politiche ed economiche, che hanno portato molti Paesi a lunghe lotte civili, a conflitti sociali, dittature, dispute territoriali e guerre. Tutto ciò ha facilitato l’attività delle grandi aziende straniere, soprattutto britanniche e americane, al fine di appropriarsi delle immense risorse naturali della regione e dominarne il commercio. Tristi sono i ricordi lasciati nelle pagine della storia latinoamericana da aziende come United Fruit, Anaconda Copper Mining, ITT.

Il XX secolo ha visto consolidarsi gli Stati nazionali, ma ha anche mantenuto vive le voci e le speranze nei processi di integrazione, sebbene a fronte di discorsi dei signori della guerra e dei leader politici sempre più accesi si siano visti pochi progressi verso una vera integrazione. A partire dalle Conferenze panamericane, create dagli Stati Uniti alla fine del XIX secolo, passando dalla loro sostituzione con l’Organizzazione degli Stati Americani (OSA) nel bel mezzo della guerra fredda, la politica estera del continente è stata sempre subordinata agli interessi di Washington, con la creazione di oltre 30 organizzazioni regionali. Con il trionfo della Rivoluzione cubana nel 1959, i Paesi che sostenevano il governo degli Stati Uniti si sono allineati, atteggiamento che si è rafforzato con l’emergere delle dittature militari negli anni Sessanta e Settanta.

Nel 1994, gli Stati Uniti hanno proposto l’ambizioso Accordo di libero scambio delle Americhe (ALCA, Área de Libre Comercio de las Américas), che comprendeva tutto il continente ad eccezione di Cuba. Il progetto aveva suscitato entusiasmo di molti Paesi della regione, che pensavano che avrebbe dato un forte impulso alle loro economie. Tuttavia, al IV Vertice del 2005 a Mar del Plata, in Argentina, alla presenza dell’ex presidente USA George Bush, l’ALCA è naufragato a causa principalmente della ferma opposizione di Argentina e Brasile, a cui si sono accodati l’Uruguay e il Paraguay, gli altri membri del Mercato comune del Sud (MERCOSUR, Mercado Común del Sur). A loro si è aggiunto infine il Venezuela guidato dal defunto presidente Hugo Chávez. È stata una pesante sconfitta per Washington e per la sua strategia commerciale e politica volta a mantenere l’egemonia nella regione, che era condivisa da molti altri Paesi come il Cile e il Messico, che già avevano accordi bilaterali di libero scambio con gli Stati Uniti.

Poco dopo, nel 2010 è nata la Comunità degli Stati dell’America Latina e dei Caraibi (CELAC, Comunidad de Estados Latinoamericanos y Caribeños) con 33 Paesi, esclusi Stati Uniti e Canada. Nonostante l’entusiasmo generato nel continente dalla creazione della CELAC, per una sorta di rinascita del concetto di Patria grande, oggi questa si aggiunge alla lunga lista di organizzazioni che languono senza compiti e attività concrete. Nel 2019 l’attuale presidente del Brasile, Jair Bolsonaro, ha annunciato il ritiro del suo Paese dall’organizzazione.

Nel Sud del continente le cose non sono andate meglio. Nel 2008 è stata formalizzata la creazione dell’Unione delle Nazioni Sudamericane (UNASUR), composta da 12 Paesi, che persegue, insieme all’integrazione economica e politica, la creazione di un’identità sudamericana al fine di poter parlare con una sola voce. Nel 2018, Argentina, Brasile, Cile, Colombia, Paraguay e Perù hanno sospeso la loro partecipazione al gruppo, lasciando l’organizzazione paralizzata, come è successo ripetutamente con altre istituzioni nel corso della storia. Migliore fortuna ha avuto la creazione dell’organismo regionale Alleanza del Pacifico. Fondata nel 2011 da Cile, Colombia, Perù e Messico, è impegnata nel perseguimento della libera circolazione di beni, servizi e persone. È considerata uno degli organismi di integrazione di maggior successo, come testimoniano gli oltre 50 Paesi che hanno aderito come osservatori.

Tuttavia, l’integrazione regionale non può essere considerata solo come un piccolo club di Paesi che fanno convergere le loro politiche macroeconomiche. La sfida per l’America Latina è quella di raggiungere l’integrazione politica ed economica nel rispetto delle differenze e delle caratteristiche di ciascuno, ma con l’intento di giungere ad avere una voce comune che la rappresenti. In un mondo di grandi blocchi, con attori delle dimensioni di Stati Uniti, Cina, Unione Europea, Federazione Russa e India, i Paesi dell’America Latina non hanno la possibilità di far valere i loro interessi individualmente o in piccoli gruppi. Il raggiungimento di un traguardo che sembra così semplice, di buon senso, è sempre stato condizionato da gruppi di pressione interni e da influenze esterne.

La polarizzazione ideologica dell’ultimo decennio è stata responsabile dei fallimenti del lungo processo di integrazione latinoamericana. Mentre i leader di sinistra abusavano della retorica integrazionista e provavano a ideologizzare il concetto di Patria grande, le forze conservatrici, nazionaliste e di destra hanno cercato di dare all’integrazione un carattere ‘de-ideologizzato’, di natura strettamente economica, impregnato di dottrina neoliberale e privo di tensione ideale. Il ciclo progressista impegnato nell’integrazione della regione, promossa da presidenti come Lula, Dilma, Kirchner, Chávez, Correa, Morales, Bachelet, Vázquez e Mujica, è stato sostituito da governi di destra che hanno rotto un processo, che, pur peccando in alcuni casi di ideologismo, ha compiuto alcuni passi sulla lunga strada dell’integrazione.

Nel 2019, i regimi di destra di Colombia e Cile hanno proposto la creazione del PROSUR (Forum per il progresso dell’America del Sud) al quale hanno aderito i governi di Argentina, Brasile, Colombia, Ecuador e Perù. Senza una sede centrale o una burocrazia consolidata “per risparmiare risorse fiscali”, e oggi con i vertici virtuali a causa della pandemia, cercano un’integrazione pragmatica, priva di grandi obiettivi. In realtà, più che di un organismo di integrazione, si tratta ormai di una specie di gruppo di WhatsApp, non un vero e proprio strumento politico se non per la sua ossessione per il regime dittatoriale venezuelano. La breve vita di questo gruppo è segnata dai cambiamenti di governo già prodotti in Argentina e in Perù, insieme alla scarsa approvazione degli altri Paesi che dovranno affrontare le elezioni a breve termine.

Così, l’integrazione dell’America Latina continuerà a dormire il sonno dei giusti fino a quando non si ripeterà un ciclo politico con nuovi leader visionari che comprendano che l’integrazione oggi non è un ideale romantico o un gioco esclusivo di interessi economici e commerciali, ma una necessità dettata dall’imperativa esigenza di riaffermare l’identità culturale di un continente meticcio, che dal latino, cioè dal patrimonio europeo, ha preso tanto quanto dalle popolazioni indigene e afroamericane. La voce della regione avrà un peso quando riuscirà a conciliare gli interessi nazionali con l’interesse comune. Questa è una delle lezioni che possiamo imparare dall’esperienza dell’Unione Europea.

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