Fin dal suo annuncio ufficiale, nel 2013, il progetto della Nuova Via della Seta, meglio nota con gli acronimi OBOR (One Belt One Road) e BRI (Belt and Road Initiative), in cinese yidai yilu, ha suscitato un grande interesse, ma anche molte critiche e altrettanti dubbi circa le reali intenzioni del governo comunista cinese. Il progetto, che mira a far rivivere l’antica via della seta, collegando l’Asia all’Europa e all’Africa attraverso la costruzione di una rete di collegamenti infrastrutturali, marittimi e terrestri muovendosi su due direttrici principali – una terrestre (la cintura economica della Via della Seta), dalla parte occidentale della Cina all’Europa del Nord attraverso l’Asia Centrale e il Medio Oriente, e una marittima (la Via della Seta marittima del XXI secolo), che attraverso l’Oceano Indiano raggiunge l’Africa per poi piegare a nord – altro non è, infatti, che il riflesso della definitiva ascesa della Repubblica Popolare Cinese sulla scena globale, dal punto di vista economico, politico-diplomatico e strategico-militare, e un tassello fondamentale del ‘sogno cinese’ (Zhongguo meng) e del ‘risorgimento nazionale’ (Zhongguo fuxing), atti a mettere la parola fine al famigerato ‘secolo di vergogna e umiliazione’ (bainian chiru).
È dunque un progetto associato alla dimensione internazionale della Cina e alla sua capacità di modellare il sistema internazionale e di influenzarne lo sviluppo. In tal senso può essere considerato come uno dei progetti strategici più rilevanti della Cina popolare e senza dubbio il più ambizioso della quinta generazione di governanti (di wu dai), capeggiata da Xi Jinping, sul quale le autorità cinesi hanno investito un rilevante capitale politico, come la propria credibilità, attraverso il suo inserimento nello Statuto del Partito e nella Costituzione.
Non stupisce pertanto l’atteggiamento di ‘sospetto’ da parte di buona parte della comunità internazionale nel momento stesso in cui l’iniziativa è stata svelata nella sua interezza e complessità: un progetto che attraverso i due bracci principali si prefigge di riunire tre continenti (Asia, Europa, Africa), con la prospettiva di raggiungere l’Artico, l’Australia e finanche le Americhe, favorendo la costituzione di una ‘comunità di futuro condiviso per l’umanità’ (renlei mingyun gongongti). In tal senso la BRI viene percepita come un tentativo da parte di Pechino di ricostruire un proprio impero e reintrodurre l’antico sistema sinocentrico.
Tra gli aspetti specifici oggetto di critica del progetto vi è proprio l’identificazione di quest’ultimo con il Partito comunista, ma, soprattutto, il meccanismo di creazione di crescenti livelli di dipendenza dei Paesi coinvolti (oltre una sessantina) nei confronti di Pechino, per via della loro incapacità a ripagare i debiti contratti per la realizzazione delle infrastrutture nell’ambito della BRI (cosiddetta ‘trappola del debito’). Una delle accuse principali rivolte dall’Occidente al progetto faraonico di Xi Jinping è, infatti, di essere una strategia di dominio mondiale che la Cina popolare porta avanti facendo deliberatamente ricorso all’arma del debito: attraverso prestiti a Paesi piccoli e già problematici di per sé, otterrebbe il controllo di asset strategici (a partire dai porti), limitando al contempo la sovranità politica dei suddetti Paesi.
È la cosiddetta ‘diplomazia del debito’, un termine utilizzato come critica della politica estera del governo cinese nell’ambito della Belt and Road Initiative; laddove con il termine di ‘trappola del debito’ si intende genericamente una ‘situazione in cui un debito è difficile, quando non addirittura impossibile da estinguere, in genere perché i pagamenti di interessi elevati impediscono il rimborso del capitale’. La problematica in questione è emersa soprattutto all’indomani della pubblicazione, nel marzo del 2018, di un rapporto del think tank americano Center for Global Development, secondo il quale la Belt and Road Initiative starebbe determinando delle gravi controindicazioni finanziarie per alcuni Paesi, già vulnerabili. In particolare, dei 68 Paesi identificati come potenziali debitori, 23 erano considerati a rischio ‘abbastanza elevato’ di sofferenza del debito; tra questi lo Sri Lanka, che nel dicembre del 2017 si era visto costretto a trasferire il controllo del porto di Hambantota, costruito utilizzando prestiti cinesi, alla China Merchants Port Holdings, un importante conglomerato di proprietà statale, con sede a Hong Kong. Lo stesso studio rivelava come 8 di quei 23 Paesi – Pakistan, Gibuti, Maldive, Laos, Mongolia, Montenegro, Tagikistan e Kirghizistan – erano invece a rischio ‘molto elevato’ di non potere ripagare il loro debito a causa di futuri finanziamenti relativi a progetti infrastrutturali nell’ambito della BRI. Tra questi il Montenegro, Stato periferico dell’Europa, parte dell’Iniziativa 16+1 (che racchiude la Cina e 16 Paesi dell’Europa centrale e Orientale), nonché membro potenziale dell’Unione Europea, il quale aveva conosciuto un forte aumento del proprio debito a seguito della accettazione di un cospicuo prestito da parte della Cina per la costruzione di un’autostrada di collegamento tra il porto di Bar a Belgrado, nella vicina Serbia. La rilevanza del caso montenegrino è data dal fatto che Pechino aveva accettato di investire nel progetto nonostante che due distinti studi di fattibilità (realizzati nel 2006 e nel 2012) ne avessero messo in evidenza le problematiche di realizzazione. Il progetto rischiava pertanto di non vedere la luce poiché il debito di Podgorica era previsto all’80% del prodotto interno lordo (PIL) del Paese già alla fine del 2018. Ciò detto, studi più recenti hanno contribuito a ridimensionare la natura del problema, circoscrivendolo ad alcuni casi specifici e rivelando la presenza di altri attori nel processo di indebitamento di alcuni Paesi inseriti nella traiettoria della BRI e citati nello studio del think tank americano, tra cui il Fondo monetario internazionale (FMI), la Banca mondiale, oltre a Stati Uniti e Giappone.
In particolare, le ricerche condotte dalla China-Africa Research Initiative della John Hopkins University – diretta da Deborah Brautigam, uno dei massimi esperti di presenza cinese in Africa – e dal Global Development Policy Center della Boston University, hanno contribuito a rivelare ‘scarse prove’ di un modello che indica come le banche cinesi, agendo per conto del governo centrale, stiano deliberatamente finanziando progetti in perdita con il proposito di garantire vantaggi strategici alla RPC, smontando in qualche modo i postulati della ‘diplomazia del debito’ praticata da Pechino. In altre parole, i problemi di debito di buona parte dei Paesi inseriti nella traiettoria della BRI non sono necessariamente ‘targati’ BRI e la Cina non appare come il maggior creditore. Nella fattispecie, è emerso che in Africa, su 17 Paesi oggetto di analisi, classificati dall’FMI come vulnerabili, solo in tre casi – Gibuti, Repubblica del Congo e Zambia – i prestiti cinesi rappresentano la metà o più del debito pubblico. Analogamente, un’indagine portata avanti da due economisti ha messo in evidenza come il debito dello Sri Lanka – spesso citato come l’emblema della nuova strategia di dominio di Pechino – sia antecedente al caso di Hambatota, e come in generale i creditori cinesi detengano ‘solo’ il 10% del totale del debito estero accumulato dal Paese.
Immagine: Containers nel porto commerciale di Hong Kong (24 novembre 2012). Crediti: nui7711 / Shutterstock.com
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