L’annuncio prima e l’approvazione poi di una risoluzione che porterà alla stesura, per mano del Comitato permanente dell’Assemblea nazionale del popolo (ANP), di una legge sulla sicurezza nazionale per Hong Kong ha fatto montare nuovamente le tensioni nell’ex colonia britannica, riaccendendo i riflettori su questioni che gravano da lungo tempo sulla regione. Si tratta di una mossa che non desta eccessivo stupore. Il discorso politico di Pechino su Hong Kong non è mai stato ambivalente. Lo stesso Xi Jinping ha sempre lanciato messaggi chiari e inequivocabili su questo fronte, lasciando intendere che nessuno ha il potere di mutare e sfidare il destino politico del “Porto profumato”.

I dettagli precisi della legge non sono ancora noti. Quel che si sa è che dovrebbe regolare i seguenti ambiti: secessione, sedizione, sovversione, terrorismo e attività di forze straniere e d’oltremare che interferiscono negli affari di Hong Kong. La risoluzione include anche articoli che autorizzano gli organi di sicurezza nazionale del governo centrale a impiantare succursali nella Regione ad amministrazione speciale (RSA), legittimando la presenza dell’apparato di sicurezza statale della Repubblica popolare nell’ex colonia britannica. Secondo molti sarebbero messi a repentaglio lo Stato di diritto e le libertà civili di cui attualmente gode la regione. Tra le varie accuse mosse a Pechino c’è quella di voler distorcere definitivamente la formula “Un Paese, due sistemi”, ideata proprio per garantire libertà e diritti distinti ai cittadini di Hong Kong. Il timore è che diverse attività oggi tutelate dalla Basic Law – la mini-costituzione in vigore nella Regione ad amministrazione speciale – possano essere considerate criminose e meritevoli di sanzione penale e che tutta una serie di diritti e libertà, come la libertà di riunione, la libertà di parola e la libertà di associazione, possano essere compromessi. In molti temono anche che il sistema giudiziario cinese possa sovrapporsi a quello dell’ex colonia britannica, pregiudicandone l’indipendenza.

Gli osservatori internazionali sembrano concordare sul fatto che la mossa di Pechino segnerà probabilmente la fine di un’era per Hong Kong. Risale al dicembre 1984 la Dichiarazione congiunta sino-britannica siglata da Pechino e Londra, che delineò il percorso che avrebbe poi portato Hong Kong a ritornare sotto la sovranità cinese e a diventare dal 1° luglio 1997 una Regione ad amministrazione speciale della Repubblica popolare cinese, retta da una Basic Law valida per un periodo di 50 anni, che avrebbe dovuto garantire alla RAS, almeno sulla carta, un alto grado di autonomia e il mantenimento del proprio potere esecutivo, legislativo e giudiziario fino al 2047. Dalla prospettiva di Pechino, la legge mira invece a proteggere la sovranità nazionale ed evitare il reiterarsi di situazioni destabilizzanti come quelle che hanno inframmezzato la seconda metà del 2019. Il messaggio è inequivocabile: il destino politico di Hong Kong è tracciato e nessuno può sfidarlo. Secondo Pechino, inoltre, la decisione di imporre una legge sulla sicurezza nazionale determinerebbe un miglioramento dell’impostazione “Un Paese, due sistemi”, garantendone “il successo duraturo”.Immagine 0

Dopo l’annuncio ufficiale, la reazione di una parte del mondo non si è fatta attendere. Regno Unito, Canada e Australia hanno rilasciato una dichiarazione congiunta affermando di essere «profondamente preoccupati». Il segretario di Stato USA Mike Pompeo ha dichiarato invece che «Hong Kong non mantiene più un alto grado di autonomia dalla Cina», parole a cui hanno fatto seguito quelle del presidente Trump, il quale ha annunciato la revoca dello status speciale concesso dagli Stati Uniti a Hong Kong, una decisione che potrebbe mettere a rischio circa 67 miliardi di dollari di interscambio annuale di beni e servizi, qualora le stesse tariffe e i controlli sulle esportazioni che Washington ora impone alla Cina fossero estesi alla RAS.

Diversi osservatori internazionali hanno inoltre sollevato riserve circa la costituzionalità della risoluzione: l’articolo 23 della Basic Law stabilisce infatti che debba essere l’organo legislativo a emanare leggi che proibiscano atti di tradimento, secessione, sedizione e sovversione. Nel 2003 la Regione provò a munirsi di una legge sulla sicurezza nazionale, ma il tentativo fu bloccato dalle proteste sollevate da mezzo milione di cittadini. Per aggirare questo ostacolo Pechino potrebbe ricorrere all’articolo 18 della Basic Law, che stabilisce, sì, che nella RAS non debbano essere applicate leggi nazionali, ma con un’eccezione: le leggi elencate nell’Allegato III, concernenti la difesa e gli affari esteri nonché altre questioni che esulano dall’autonomia della Regione, non sono soggette a questa limitazione. È qui che si paleserebbe secondo molti un vizio di incostituzionalità, dato che gli ambiti toccati dalla legge proposta sono regolati esplicitamente dall’articolo 23 e, come fa notare su East Asia Forum Jeppe Mulich, teaching associate di Global History presso la facoltà di Storia dell’Università di Cambridge, sovversione e secessione non equivalgono ad affari di politica estera e di difesa (qui il riferimento alle interferenze esterne potrebbe giocare un ruolo). L’interpretazione finale della Basic Law, conclude Mulich, spetta comunque al Comitato permanente dell’ANP, che ha quindi la facoltà di reinterpretare gli articoli 18 e 23 e adombrare qualsiasi vizio di incostituzionalità.

Sebbene l’approccio adottato finora da Pechino abbia disatteso le aspettative dell’Occidente, che ha spesso immaginato il profilarsi di una seconda Tienanmen (comparazione di per sé inappropriata, dato il contesto profondamente differente), è difficile prevedere quali scenari potranno aprirsi dopo l’emanazione di una legge sulla sicurezza nazionale che di fatto bypassa l’organo legislativo di Hong Kong. Quel che è certo è che la Cina lavora da anni per costruirsi e proiettare un’immagine di sé da grande Paese responsabile in grado di ricoprire un ruolo di primo piano nella leadership globale. L’immagine di un “grande Paese responsabile” compare spesso sugli organi di stampa del Partito comunista cinese, soprattutto in contrapposizione – nella narrazione di Pechino – ad alcuni approcci assunti dagli Stati Uniti, giudicati sbagliati dalla leadership cinese in quanto tradirebbero le responsabilità proprie di una grande potenza. Alla luce di quanto sta accadendo dall’altra parte del Pacifico, con un’America sempre più alla deriva e con una leadership politica controversa, la gestione della crisi da parte della Cina appare attenta e oculata. Pechino ha finora dato prova di pazienza strategica, senza agire con impulsività, suscitando la sensazione di saper appunto “gestire” la crisi, conscia anche delle ripercussioni che avrebbe prodotto sulla sua reputazione una gestione differente. Il timore è che tutto ciò possa far guadagnare ulteriore terreno a un modello che è pur sempre autoritario, in cui la mancanza di un dibattito interno, di un’opinione pubblica che metta in discussione o quanto meno dibatta su quanto accade fa sì che tante contraddizioni e criticità rimangano nell’ombra e non si manifestino completamente, conferendo solidità – quanto meno in apparenza – all’intero sistema.

Immagine: Striscione a favore dell’indipendenza esposto contro la legge sulla sicurezza nazionale della Cina nel centro commerciale IFC a Hong Kong (25 maggio 2020). Crediti:  YT HUI / Shutterstock.com

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