Mentre la diplomazia italiana è impegnata nell’organizzazione della conferenza sulla Libia in programma per il 12 e il 13 novembre a Palermo, nell’ex Jamahiriya continua a regnare il caos.

Dopo la tregua mediata dall’ONU e firmata a inizio settembre tra alcune milizie rivali di Tripoli, che sembrava aver posto un labile freno alle violenze che hanno causato più di cento morti nell’Ovest del Paese, negli ultimi giorni nella capitale si sono registrati nuovi scontri tra gruppi armati. L’omicidio del capo delle Forze speciali di deterrenza di Tripoli (Rada), vicine al Governo di accordo nazionale (GNA), ha riaperto a una nuova escalation di violenze che è culminata nell’evacuazione della sede del ministero degli Esteri per motivi di sicurezza. La riapertura delle ostilità potrebbe mettere a rischio la tenuta del Governo di accordo nazionale e del suo leader Fayez al-Sarraj. Recentemente anche l’Alto consiglio di Stato, per bocca del suo vicepresidente, ha espresso seri dubbi sul suo operato, accusandolo di non essere stato in grado di porre fine al divario politico e di migliorare il tenore di vita della popolazione. Una dichiarazione che potrebbe essere il preludio per una ulteriore marginalizzazione dell’alleato italiano, anche in vista del possibile rimpasto del Consiglio presidenziale che l’Alto consiglio di Stato potrebbe votare a breve, su proposta della Camera dei rappresentanti di Tobruk. È evidente come questo “caos istituzionale” metta in crisi qualunque tentativo di procedere verso una rapida tornata elettorale, così come previsto nella dichiarazione di consenso raggiunta a Parigi lo scorso 29 maggio. Secondo gli accordi, infatti, la Costituzione provvisoria, necessaria a definire il quadro istituzionale per lo svolgimento delle elezioni, deve essere approvata tramite un referendum. Tuttavia, la Camera dei rappresentati di Tobruk non ha ancora stabilito la data delle consultazioni e non ci sono stati progressi nei lavori per la legge elettorale. In questo contesto l’ipotesi di elezioni entro il mese di dicembre appare decisamente remota.

Nel frattempo l’uomo forte della Cirenaica, Khalifa Haftar, giovandosi di questa impasse, continua a guadagnare consensi anche nel Sud e nell’Ovest e osserva le manovre dei suoi alleati regionali e internazionali che remano in suo favore. Durante la visita dello scorso 17 ottobre del presidente egiziano al-Sisi all’omologo russo Putin a Sochi, i due alleati di ferro del generale libico hanno rinnovato la loro convergenza sulla necessità di trovare una soluzione alla crisi politica nel Paese per ricomporre la frammentazione delle istituzioni e ripristinare un sistema di sicurezza e legalità condiviso. Il presidente egiziano ha inoltre sottolineato l’impellenza di «riunire l’istituzione militare libica», con un chiaro riferimento all’inaffidabilità delle milizie locali e all’incapacità di Serraj di controllarle. Un endorsment a favore di Haftar che potrebbe costituire un’ipoteca sul suo ruolo nel vertice di Palermo. Il tema sicurezza, infatti, resta il grande problema della Libia. Forti del caos che regna nella capitale i gruppi criminali e le organizzazioni jihadiste, in prevalenza stabilite nell’entroterra libico, hanno il campo libero per portare avanti i loro obiettivi di espansione territoriale, proiettandosi verso la costa. Secondo un recente rapporto delle Nazioni Unite, del 27 luglio 2018, vi sarebbero tra i 3.000 e 4.000 combattenti dello Stato islamico sparsi per il Paese. Poco più di un mese fa i miliziani dell’Isis hanno rivendicato l’attentato terroristico al quartier generale della National Oil Corporation (NOC) a Tripoli che ha causato due vittime. Inoltre, le organizzazioni criminali, forti dell’assenza di un reale controllo, portano avanti indisturbate i loro “affari”, depredando l’economia locale e alimentando i traffici illegali che, dopo il calo delle partenze dei migranti dalle coste libiche, si basano soprattutto sul contrabbando di petrolio e di stupefacenti.

È questo, in sintesi, il quadro che si presenterà alle cancellerie mondiali durante il vertice del prossimo novembre: una Libia divisa e in preda a una deriva securitaria. L’Ovest è in mano a milizie formalmente vicine al GNA, ma de facto svincolate dal suo controllo, periodicamente minacciate da altri gruppi che mirano ad acquisire una voce in capitolo nella “gestione” della capitale. Nell’Est Haftar appare sempre più blindato dai suoi alleati che ne assecondano le aspirazioni politiche. Il Fezzan è in mano a gruppi jihadisti e bande criminali.

Per tentare di sbrogliare questa matassa non basterà avere al tavolo delle trattative tutti i principali attori regionali e internazionali a vario titolo coinvolti nel teatro libico, Russia e Stati Uniti in primis, ma sarà necessario operare quel salto di paradigma che fin qui nessun tentativo di mediazione internazionale è stato in grado di fare: includere gli attori locali a tutti i livelli (milizie, sindaci, capi tribù ed esponenti della società civile) nel dialogo per la stabilizzazione. Solo in questo modo, ascoltando le varie istanze, si potrà proporre una bozza seria e condivisa per un programma di disarmo, per la creazione di un esercito e la messa in sicurezza del Paese e porre le basi per una efficace riforma economica e soprattutto per un processo politico capace di condurre alle tanto agognate elezioni.

Crediti immagine: da giomodica [CC BY 3.0  (https://creativecommons.org/licenses/by/3.0)], attraverso Wikimedia Commons

Argomenti

#conferenza#referendum#libia