Sessantuno voti contrari, trentanove astensioni e un solo voto favorevole. Un’altra battuta d’arresto, l’ennesimo duro colpo per le speranze di una stabilizzazione della Libia: il 22 agosto la Camera dei rappresentanti con sede a Tobruk ha deciso di non accordare la fiducia al Governo di accordo nazionale (Government of National Accord, GNA) nato dalla mediazione delle Nazioni Unite e presieduto da Fayez al-Sarraj. Si torna dunque al punto di partenza, dopo che già a gennaio il premier era stato costretto a rivedere la sua lista di 32 ministri, bocciata da Tobruk perché ritenuta eccessivamente lunga. Gli sforzi sono però stati giudicati insufficienti: troppi anche i 13 nomi della seconda proposta votata pochi giorni fa, mentre la Camera dei rappresentanti insiste sulla necessità di snellire ulteriormente il governo e ridurre a 8 membri la compagine ministeriale.

Sono ormai trascorsi più di nove mesi da quando – il 17 dicembre 2015 – il Segretario generale dell’ONU Ban Ki-moon salutò con soddisfazione l’accordo politico sulla Libia raggiunto nella città marocchina di Skhirat. L’intesa, che doveva fungere da base per la costruzione del nuovo Stato unitario post-Gheddafi, stabiliva l’imprescindibile principio dell’integrità territoriale del Paese, riconosceva la Camera dei rappresentanti come ‘unica autorità legislativa’ durante la transizione e impegnava le parti alla formazione di un governo di accordo nazionale con sede a Tripoli. A oggi tuttavia quel compromesso tra fazioni rivali che si ritenevano ugualmente legittimate a esercitare il potere politico non ha prodotto i risultati desiderati. Il cammino è stato da subito denso di difficoltà: a gennaio il voto negativo sul governo da parte della Camera dei rappresentanti, che comunque ha approvato in linea di principio l’accordo politico; poi la presa di posizione a marzo di Khalifa Ghwell, primo ministro dell’autoproclamato governo di salvezza nazionale, che ha cercato di impedire – senza successo – l’insediamento di Sarraj nella capitale Tripoli; successivamente le dichiarazioni del controverso generale Khalifa Haftar, a capo delle milizie di Tobruk, che a maggio ha affermato di non riconoscere il governo tripolino e di considerare le sue decisioni "soltanto inchiostro su carta"; sullo sfondo poi, a complicare ulteriormente una già drammatica situazione, la presenza nel Paese di cellule dell’autoproclamato Stato islamico che – pur avendo perso terreno in aree come quella di Derna, Bengasi e Sabratha – rimanevano operative nella loro roccaforte di Sirte.

Proprio su questo fronte si sono registrate negli ultimi mesi interessanti evoluzioni: a partire da maggio, infatti, il lancio dell’operazione Struttura solida (Al-Bunyan al-Marsous) per sottrarre Sirte ai miliziani jihadisti ha prodotto risultati importanti, e il sostegno garantito dai bombardamenti statunitensi avviati a inizio agosto su richiesta di Tripoli ha consentito alle forze in campo contro l’IS di avanzare ulteriormente verso l’obiettivo finale. Come ha scritto il Senior research fellow dell’ISPI Antonio Varvelli, la caduta dello Stato islamico a Sirte sembra ormai scontata, e anche se pare probabile che non determinerà una neutralizzazione definitiva del gruppo terroristico nell’Africa del Nord, rappresenterà comunque un passaggio fondamentale nella lotta contro di esso.

Sotto il profilo strettamente politico, la situazione resta comunque profondamente instabile. In un’analisi pubblicata su atlanticcouncil.org, gli studiosi Fadel Lamen e Karim Mezran hanno sottolineato che quanto accaduto il 22 agosto renderà ancora più profonda la reciproca diffidenza tra i membri della Camera dei rappresentanti: l’iniziale agenda dei lavori non prevedeva infatti alcun voto sul governo, ma una convocazione per ‘consultazioni’, tanto che alcuni deputati che supportano l’accordo politico hanno denunciato l’accaduto e parlato esplicitamente di deliberazione illegale. Prevedere cosa accadrà in futuro è difficile: il voto dell’Assemblea sull’esecutivo – rilevano Lamen e Mezran – può comunque interpretarsi come una sostanziale accettazione tanto dell’accordo politico quanto della necessità di giungere a un’intesa sul governo, tanto che Sarraj dovrebbe cercare ancora una volta di ottenere il benestare di Tobruk su una terza lista di ministri, ma una parte della Camera dei rappresentanti sembra voler far naufragare il processo di transizione sostenuto dall’ONU. In questo quadro, diversi deputati fanno infatti il gioco di Haftar, che grazie anche al sostegno di attori importanti quali l’Egitto e gli Emirati Arabi Uniti, e con una Francia che opera geopoliticamente su più tavoli, mira a essere pedina fondamentale nella complessa partita libica.

Quali siano le possibilità di successo del governo di accordo nazionale di Sarraj non è semplice da decifrare. In un articolo pubblicato su Foreign policy nel mese di giugno, Seth Kaplan e Bassma Kodmani suggerivano un’inversione dell’approccio internazionale alla questione libica: non un’impostazione top-down, con la costituzione di un’autorità centrale che difficilmente riuscirebbe a comporre gli scontri tra gruppi contrapposti e a combattere problemi radicati come jihadismo e criminalità diffusa; bensì un modello bottom-up, che partendo dal basso miri innanzitutto a instaurare meccanismi di conflict management a livello tribale e contemporaneamente crei le condizioni per un più ampio e comprensivo accordo politico generale.

Analizzando le criticità strutturali della Libia, Lamen e Mezran hanno efficacemente paragonato il Paese a una matrioska: se infatti, prima facie, una delle divisioni più nette pare quella tra forze secolariste e islamiste, dietro tale contrapposizione è possibile scorgere fratture tra centro e periferia, e andando più in profondità lo scontro riguarda anche il controllo delle risorse, fino ad arrivare alle rivalità tra famiglie e tribù. Ed ecco che così sembra venir meno l’idea stessa dell’esistenza di un’autentica identità nazionale libica.