Domenica 15 settembre il popolo tunisino tornerà alle urne per il primo turno delle elezioni presidenziali. Dopo la morte del novantaduenne presidente Béji Caïd Essebsi – venuto a mancare lo scorso 25 luglio – ben ventisei candidati puntano allo scranno più alto delle istituzioni del Paese nordafricano, in una tornata elettorale che – occorre precisare – arriva a scadenza naturale del mandato presidenziale, con Essebsi che aveva già reso noto di non essere intenzionato a cercare la rielezione.
Alla luce dell’elevato numero di aspiranti presidenti, appare improbabile che il nome del nuovo capo dello Stato si sappia già dopo il voto di domenica. Questo primo turno servirà dunque innanzitutto a scremare le candidature e stabilire chi saranno i due rivali che si sfideranno nel ballottaggio previsto per il mese di novembre. Nel frattempo, i tunisini torneranno alle urne a ottobre per eleggere l’Assemblea dei rappresentanti del popolo, l’organo legislativo della Repubblica di Tunisia.
Le due competizioni elettorali si compenetrano e si influenzano reciprocamente a livello politico, e dal loro esito dipenderà il destino dell’unico Paese in cui la transizione democratica post-primavera araba sembra aver portato a un esempio di governance stabile. Accostata agli scenari di Libia, Siria ed Egitto, la Tunisia uscita dalla Rivoluzione dei gelsomini sembrerebbe dunque finora un caso di successo, nonostante la situazione di perenne emergenza economica che caratterizza il Paese. Occorre poi sottolineare che l’esito – quanto mai incerto – dell’imminente tornata elettorale presidenziale avrà anche un impatto considerevole sui partiti politici che finora sono stati protagonisti della transizione, in particolare il movimento centrista Nidaa Tounes (Appello alla Tunisia), e il partito d’ispirazione islamica Ennahda (Rinascita).
La folta schiera di candidati alla presidenza della Repubblica sembra un esito naturale per un Paese che sin dai tempi del padre della patria Habib Bourguiba e del successore Ben Ali ha visto un forte accentramento dei poteri nella figura del presidente. Ed è proprio sui poteri e sulle prerogative del presidente che si gioca gran parte del dibattito politico. Se da una parte il vento della primavera araba ha gradualmente ridimensionato il ruolo del presidente nella gestione dello Stato tunisino, dall’altra tra i candidati per le elezioni del 15 settembre c’è chi propone un rafforzamento della più alta figura istituzionale tunisina.
È il caso di Abdelkarim Zbidi, attuale ministro della Difesa spalleggiato da Hafedh Caïd Essebsi, figlio del defunto presidente, secondo cui l’attuale impalcatura istituzionale presenterebbe alcune debolezze e contraddizioni. «Questo è irragionevole ‒ ha dichiarato Zbidi di recente all’agenzia Reuters ‒. La mancanza di efficienza in questo sistema ibrido interrompe la ripresa economica e la transizione democratica». È dello stesso avviso anche Abir Moussi, una delle due candidate donne alla presidenza, già esponente del deposto regime benalista.
Tra i nomi dei candidati spicca quello dell’attuale primo ministro Youssef Chahed, quarantenne ingegnere agricolo, al cui destino sembra legato anche quello del fronte laico centrista. Chahed si presenta come candidato di Tahya Tounes (Viva la Tunisia), nato da una scissione interna a Nidaa Tounes, il partito che dal 2012 cerca di tenere insieme istanze secolari, riformiste e socialiste in risposta all’islam politico di Ennahda. Il partito, dopo una serie di convulsioni e scissioni interne, si presenta ora profondamente frammentato. Sta di fatto che, complice la morte di Essebsi, la celebrazione delle presidenziali prima delle parlamentari potrebbe consentire a Chahed di svincolare il proprio destino da quello del partito. In altri termini: anche se Tahya Tounes dovesse andar male alle elezioni parlamentari, questo avverrà quando il destino di Chahed sarà in parte già segnato: escluso dalla competizione o uno dei due finalisti designati per il secondo turno.
Altro candidato con un’esperienza istituzionale alle spalle è Mehdi Jomaa, premier tunisino dal 29 gennaio 2014 al 6 febbraio 2015. Mentre un outsider d’eccellenza, che molto ha fatto parlare di sé nei mesi precedenti la tornata elettorale, è Nabil Karoui, definito dal Financial Times «il Berlusconi tunisino». Karoui, magnate delle telecomunicazioni, è stato arrestato il 23 agosto scorso per frode fiscale e riciclaggio di denaro. Per questa ragione è attualmente detenuto nel carcere di El Mornaguia e non ha potuto quindi partecipare ai dibattiti televisivi che – per la prima volta nella storia del Paese – hanno visto i candidati confrontarsi e spiegare i loro programmi elettorali di fronte alle telecamere.
Al pari di Nidaa Tounes, anche il partito di ispirazione islamica Ennahda – fondato da Rashid Ghannushi – si presenta diviso alle elezioni presidenziali. Dalle sue file – tra ex e militanti ancora tra i ranghi del partito – vengono due dei ventisei candidati. Il primo è Abdelfattah Mourou, avvocato di Tunisi dotato di grande eloquenza e capace di attrarre voti anche esterni al classico bacino elettorale di Ennahda. Anche Mourou, parlando ai microfoni del portale di notizie in lingua inglese Middle East Eye, si è espresso in favore di un possibile rafforzamento delle funzioni presidenziali. «Il grande dilemma – ha dichiarato – è che i poteri esecutivi sono divisi tra due persone: il capo dello Stato e il capo del governo». Sempre da Ennahda proviene Hamadi Jebali, primo ministro dal 2011 al 2013. Altro candidato indipendente di area conservatrice è Kais Sayed, professore di diritto costituzionale e homo novus del panorama politico tunisino.
L’altro nome illustre, proveniente invece dal partito di centrosinistra Congresso per la Repubblica (CPR, Congrès pour la République) è quello di Moncef Marzouki, già presidente della Repubblica all’epoca della Costituente e imponente figura della transizione democratica.
A sinistra dell’arco politico di Tunisi, il Fronte popolare, vicino all’area politica del marxismo e del nazionalismo arabo, presenta due candidati: Hamma Hammami e Mongi Rahoui. Entrambi isolati ed entrambi con scarse possibilità di accedere al secondo turno.
Alla luce di questo scenario così incerto e frammentato, dunque, sembra aver ragione il giornalista ed esperto dell’area Thierry Brésillon quando dice che «Sarà davvero un genio chi riuscirà a indovinare quale presidente uscirà dalle urne». Infatti, al netto di candidati indipendenti ed esponenti di partiti minoritari, i due unici possibili egemoni del panorama politico tunisino – gli islamisti di Ennahda e i secolaristi di Nidaa Tounes – presentano forse troppi candidati per rintracciare i voti di un bacino elettorale che sembra fin troppo ristretto.
Domenica, dunque, 8 milioni di tunisini saranno chiamati a orientarsi in questo complesso appuntamento elettorale per scegliere il candidato che prenderà il posto di Essebsi al Palais de Carthage. A vigilare sulle operazioni di voto, oltre alla Commissione superiore indipendente per le elezioni (ISIE, Instance Supérieure Indépendante pour les Élections) ci sarà anche una Missione di osservazione elettorale (MOE, Mission d’Observation Électorale) inviata a Tunisi dall’Unione Europea. Questa presenza europea sta a dimostrare quanto le sorti del Paese dei gelsomini siano importanti per il vecchio continente, specialmente per dossier legati alla cooperazione e alla sicurezza. La Tunisia, ad esempio, è il primo ‘esportatore’ di foreign fighters confluiti in questi anni tra le file dello Stato islamico. Gruppi estremisti, inoltre, sono molto attivi in alcune aree del Paese, specialmente nella regione di Kasserine, a ridosso del poroso confine con la Libia. Questa presenza europea alle urne compensa, forse solo in parte, una certa latitanza da parte dei singoli Stati membri rispetto alle elezioni tunisine.
In questo contesto, è particolarmente controversa la quasi totale indifferenza dell’Italia verso il processo elettorale nel Paese nordafricano, uno Stato con cui il Bel Paese intrattiene rapporti storici e consolidati dal punto di vista economico, commerciale e culturale. Di questo disinteresse approfittano altri attori internazionali come la Francia, che sull’Africa ha un’agenda ben consolidata, oltre a Turchia e Qatar che supportano, più o meno ufficialmente, partiti di ispirazione islamica come Ennahda.
La Tunisia, similmente a quanto accade in Egitto e altri Stati dell’area, mostra una crescente disaffezione per il voto. Le elezioni municipali del 2018, con un tasso di partecipazione del 33,7%, hanno dato di ciò una dimostrazione plastica. Un’altra sfida da vincere, quindi, sarà quella dell’affluenza, importante indice della legittimazione popolare del futuro presidente.